Siamo non testimoni, ma
protagonisti diretti di quel disagio, di quel degrado civile ed esistenziale,
con una significativa differenza. Il nostro malessere non è figlio del
Coronavirus. L'EPIDEMIA E' PIUTTOSTO UN MOLTIPLICATORE, IL DETONATORE DI UNA TEMPESTA PERFETTA. Non
abbiamo avuto bisogno del pipistrello cinese per renderci conto della realtà, vedere
le macerie, comprendere che il re è nudo, che la modernità, il progresso, la
scienza e tutte le altre menzogne diffuse a piene mani da mezzo secolo sono
finzioni, imbrogli di un tempo bastardo.
Dal
pessimismo della ragione – qualcuno disse che il pessimista non è che un
ottimista bene informato- si rischia di cadere nella depressione più cupa,
porta infernale del nichilismo oppure precipitare in una indifferenza ostile,
rancorosa, chiusa in un nero solipsismo. E invece no: non può essere più buio
di mezzanotte. Non vogliamo fare uno stucchevole elenco di tutto quanto abbiamo
perduto negli ultimi decenni; sarebbe solo uno sfogo vano, lamentoso,
l’ammissione di una sconfitta esistenziale. Inutile rinvangare la normalità
schernita, l’odio per la verità, il capovolgimento del bene e del male, il
declino morale, civile, spirituale, persino estetico, tanto esteso da non
essere più percepito dalla maggioranza. Vano anche rammentare la crisi di fede,
la difficoltà di rintracciare un senso all’epoca in cui ci è toccato di vivere.
Sterile esercizio tentare di comprendere sino in fondo che cosa sia successo a
noi stessi e alla nostra gente per essere trascinati tanto in basso.
Conta
soltanto restare in piedi tra le rovine. Esercizio impervio, difficilissimo,
giacché è necessario innanzitutto riconoscere che il panorama che vediamo,
nonostante luci e lustrini, è fatto di detriti, a misura del moderno uomo senza
qualità. Non si può cedere allo sconforto, ma stringere i denti e continuare a
guardare in alto. Le forze del male avanzano, travolgono le residue linee di
difesa, ma non prevarranno. Esiste una certezza infrangibile: il nichilismo che
ci avvolge non può vincere per l’evidenza che dal nulla non può nascere nulla.
Una civiltà muore nell’indifferenza dei suoi figli. E’ segno che ha esaurito le
sue ragioni e non merita di sopravvivere. Altre ne sorgeranno. Sarà allora che
diventerà indispensabile, per chi resterà, aver serbato la fede, la tradizione,
i principi.
No,
non può essere più buio che a mezzanotte, anche nella prova dell’esilio
interiore in cui siamo stranieri a Babilonia. Sapeva tutto la sentinella idumea
dell’oracolo di Isaia: “una voce chiama da Seir in Edom. Sentinella! Quanto
durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: verrà il mattino, ma è ancora
notte. Se volete domandare, tornate un’altra volta.” Torneremo; se non saremo
noi, sarà qualcuno che porta nel cuore la verità e la bellezza trasmessa dai
padri che vogliamo consegnare a chi verrà.
Se
dovessimo descrivere per i posteri i nostri anni, diremmo che è l’era della
grande bruttezza. Il brutto è la cifra,
il centro di tutto. Ci salva la bellezza, che è verità, sguardo verso l’alto,
lampo di trascendenza. Il domani apparterrà a chi saprà intravvedere nel fango
la prima pietra di una nuova cattedrale, come scrisse Antoine de Saint Exupéry osservando
dal suo aereo di pilota di guerra le rovine dei bombardamenti. Aveva ragione il
Principe Myshkin di Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo, ma solo se la
sapremo ancora riconoscere nel buio. Nell’incipit
del Macbeth di Shakespeare, la tragedia del potere e dell’ambizione, il senso drammatico
degli eventi è già incombente nella landa desolata da cui sbucano le tre
streghe, tra tuoni, pioggia e lampi. Evocano immediatamente il paradosso, il
capovolgimento, gridando all’unisono “brutto è il bello e bello il brutto” e presto
spariscono “su, per la nebbia e l’aria unta “. Nebbia e aria unta, sporca,
irrespirabile. Sono i miasmi della nostra quotidianità, ma alcuni conservano un
doloroso privilegio: sanno ancora riconoscere la nebbia, il male. Si sta “come
d’autunno sugli alberi le foglie”, ma abbiamo la fortuna – o la grazia – di non
aver creduto alla suprema astuzia del Diavolo, farci credere che non esiste
(Baudelaire).
La
bruttezza generale ha rovesciato i valori. L’arte è brutta – una contraddizione
in termini- vieta la raffigurazione umana, eccetto nella forma del grottesco,
del mostruoso, del bizzarro. L’architettura non ha più un’idea di polis, divorata dal culto della
grandezza: il regno della quantità. La letteratura non racconta più storie, la
filosofia è un gioco di parole senza metafisica. Il diritto ha rinunciato alla
legge naturale. La musica dimentica l’armonia che produce elevazione e si
concentra sul ritmo, la rincorsa, il rumore fine a se stesso che impedisce la
riflessione. La religione si è trasformata in panteismo animista, equivoca
“energia”, dimenticando la trascendenza. La materia sembra l’unica realtà possibile;
ogni sguardo è concentrato verso il basso, verso le pulsioni elementari, gli
istinti. La scimmia nuda e sapiente fa come Crono: divora i suoi figli. Simbolo
della postmodernità è un quadro profetico di un secolo fa, l’Urlo di Edvard
Munch. Milioni di volti senza lineamenti si torcono in un grido che unisce
terrore, incredulità e impotenza.
Al
tempo del virus, tutto si è acutizzato, i fenomeni storici subiscono
un’accelerazione improvvisa, il cui fine è un terrificante dominio sull’uomo in
nome dell’interesse e dell’odio per la natura. Le streghe di Macbeth hanno
rovesciato i valori: davvero, bello è il brutto e viceversa. La stessa
inversione agisce sui valori: squalificato il coraggio a favore della viltà, la
libertà a favore del ridicolo conformismo “trasgressivo”. Al tempo di Omero,
fondatore della civiltà europea, bellezza, valore e grandezza d’animo si fondevano.
Il personaggio negativo per eccellenza era il vile, rappresentato dall’Iliade
da Tersite, brutto e codardo. Oggi trionfa il tipo umano calcolatore, cinico,
egoista e, poiché ogni cosa (e persona) ha il cartellino del prezzo, nulla ha
valore. Si fa l’apologia di un uguaglianza da gregge e si recidono le basi
della cultura, cioè della bellezza.
Il
potere impone un sapere operativo, strumentale, dal quale sono espulse le
materie che allenano a pensare, stimolano il giudizio, la critica,
l’invenzione. I giovani ricevono un semplice addestramento alle mansioni
pratiche alle quali il sistema li destina; su tutto regna l’assenza di verità, il
cui esito è il relativismo morale, anticamera del nichilismo. La società dei
nostri padri avrebbe affrontato la prova dell’epidemia con ben altro piglio e
dignità di noi figli della post modernità estenuati, fragili e piagnucolosi. Osserviamo
qualche immagine delle folle di ieri: tutta un’altra dignità, la determinazione
negli sguardi e nella postura, diversa la compostezza e il tratto rispetto alla
plebe contemporanea. Sono i frutti avvelenati della diseducazione, del
principio di piacere, del consumo di sé, della riduzione di tutto a oggetto,
della perdita di significato, del disprezzo dei simboli.
I più
non riescono nemmeno ad immaginare il potente valore simbolico della
mascherina, il pezzo di stoffa che, nelle intenzioni, si interpone tra noi e il
virus. Attraverso la maschera, ci hanno spersonalizzato, resi automi senza
volto a tempo indeterminato. In verità, più che mascherato, ci hanno bendato. Sono
gli occhi le vere vittime: guardano e vedono ciò che il potere vuole e lo
identificano con le parole da esso imposte, a partire dal confinamento
ribattezzato lockdown e dal
distanziamento “asociale”. La divisione dell’uomo dall’altro uomo si chiama
didattica a distanza (DAD) quando rompe il rapporto tra maestro e allievo,
telelavoro quando ci rinchiude in casa davanti a uno schermo perché i padroni
universali non hanno più interesse a tenerci disciplinati all’interno di
fabbriche o uffici. Si chiama fare tutto online,
a partire dagli acquisti, se lorsignori devono diminuire le spese per
esercitare con profitto l’industria, il commercio, dispensare servizi. E’ tutto
così bovinamente “comodo”, se, in attesa di incorporare il chip multiuso,
possiedi una card, un terminale e
dieci dita per pigiare sui tasti degli apparati elettronici, di cui siamo noi,
esseri umani, a essere diventati il prolungamento, non più il contrario.
Nonostante
tutto, riusciamo ancora a rendercene conto e probabilmente, pur dispersi, non
siamo pochi. E se pure lo fossimo, siamo i più fortunati, perché abbiamo
conservato l’amore per la bellezza e il desiderio della verità. Se ci immergiamo
nel tesoro immenso della nostra civiltà, ultima àncora di salvezza e miniera
inesauribile di sapienza, scopriamo che il male di oggi non è nuovo. I grandi
spiriti avevano già scorto i germi del nichilismo della modernità: pensiamo ai
demoni di Dostoevskij, posseduti da una febbrile ansia autodistruttiva. Uno di
loro, Kirillov, si suicida con l’idea che così dimostrerà l’inesistenza di Dio e
compiendo il gesto estremo libererà l’uomo. Sparandosi, diventerà l’uomo-Dio.
Kirillov prende la decisione di uccidersi perché pensa di poter affermare così il
suo libero arbitrio e liberarsi da Dio, del quale – se esistesse – non sarebbe
che una marionetta.
Stavrogin,
l’anima più nera di tutte, è il simbolo dell’ansia malata di libertà
illimitata, l’assenza di impedimento teorizzata da Hobbes. Ma la libertà assoluta
finisce per annullare i concetti di bene e male con la conseguenza di non
poterli più distinguere. “Formulai per la prima volta in vita mia
questo severo pensiero dentro di me: che non conosco e non sento né il male né
il bene, e che non solo ne ho perduto il senso, ma so che il male e il
bene in realtà non esistono nemmeno.” Così parla la figura che esprime il
superamento di ogni limite e senso morale. Ertosi al di sopra del bene e del
male, non li distingue più; ai suoi occhi si confondono, sono la medesima cosa.
Il cuore diventa sterile, arido come il deserto e la libertà si tramuta in
forza distruttrice, scatenando il demone sopito. Stavrogin finisce per dissacrare
ogni cosa, anche l’innocenza di una bambina, poiché “l’innocenza esercita sui perversi un’ attrazione speciale; essi che non
sono puri provano un indicibile piacere a profanarla”. E’ la sconvolgente
fotografia della “decostruzione “di cui sperimentiamo i risultati.
Shakespeare fa dire a
un suo personaggio che sono maledetti i tempi in cui i pazzi conducono i ciechi.
Sembra la profezia del tempo nostro, ma l’Ecclesiaste avverte: nulla vi è di
nuovo sotto il sole. Il tempo è circolare, nessun progresso lineare, nessun
transito dal buio alla luce. Quanto alla perdita di fede, fu chiarissimo Gesù
stesso: quando tornerà, il figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra? Anche
il crollo drammatico del senso comune, la follia del vizio trasformato in
diritto non è prerogativa dei questi anni orribili. Semiramide, regina
babilonese, “libito fè licito in sua legge”, scrive il padre Dante nella Commedia.
Non è la descrizione perfetta del potere, della sua capacità di rendere giusto
l’ingiusto e imporre la sua volontà? Juan Ramòn Jiménez, il massimo poeta
spagnolo del Novecento, scrisse qualcosa che dovremmo scolpire nella
memoria, a proposito delle falsità che diventano oro colato. “E’ verità,
adesso. / Ma è stata talmente menzogna, / che continua ad essere impossibile,
sempre.” L’ignoranza eterodiretta, avvolta nei suoi stracci, disprezza quanto
ignora.
Non resta che resistere, tenersi in piedi tra le rovine e tenere fermo il coraggio delle idee giuste, la cui mancanza dimostra, secondo Ezra Pound, che non valiamo niente noi o non valgono nulla le nostre idee. La muraglia più invalicabile è la forza interiore, alimentata dalla conoscenza. Talvolta, basta a placare l’ansia e dissipare le paure l’armonia straordinaria di un brano musicale: pensiamo al quartetto vocale del Rigoletto di Verdi, alla profondità arcana e alla commozione che prende all’ascolto di una sinfonia di Beethoven, lostupore dinanzi alla genialità assoluta di Bach. Altro che la monotonia irritante del rap o il baccano rock. Manca all’uomo contemporaneo “quel cibo che solum è mio, e ch’io nacqui per lui, “come dice Nicolò Machiavelli nella lettera all’amico Francesco Vettori. Machiavelli, agli arresti domiciliari per il suo presunto coinvolgimento in una congiura anti medicea, descrive le serate in cui si chiude nel suo studio, studia, assorbe le opere dei grandi del passato, con i quali intrattiene un serrato dialogo spirituale su temi elevati.
Immaginiamo
la differenza nel foro interiore tra la contemplazione della Scuola di Atene di
Raffaello, le vette spirituali del Beato Angelico o gli stessi paesaggi
impressionisti e l’astrazione di un Kandinskij, o peggio, di un Pollock. Il
dialogo diseguale con i giganti di noi nani commossi dalla grandezza sulle
tracce della bellezza sparge verità: il bello che si fa grandezza e bontà può
salvare il mondo, se in molti lo vorremo.
Nel mondo arrivato a svilire la suprema,
misteriosa bellezza della maternità attraverso pratiche come l’utero in affitto
e diffondere l’idea folle del privilegio di dare la vita come imposizione
sociale “eteropatriarcale”, che chiama bene, desiderio, diritto tutto ciò che è
male, regnano gli oscuri signori di Mordor. John R.R. Tolkien, grande
romanziere credente, ci trasporta nella Terra di Mezzo, la Contea della
bellezza, dell’armonia e della saggezza abitata dagli Hobbit, i piccoli uomini
dai grandi piedi alla ricerca dell’Anello. L’anello di Tolkien è il simbolo più
schietto non del potere, ma del Bene e del Giusto, da ricercare con l’aiuto dei
saggi e dei sapienti, di Gandalf e Merlino. No, finché un uomo saprà
commuoversi davanti alla bellezza e levare lo sguardo verso l’alto, non sarà
più buio della mezzanotte e potrà riposare la sentinella idumea.
Perché “non tutto quel ch’è oro brilla, né gli
erranti sono perduti; il vecchio ch’ è forte non s’aggrinza, le radici profonde
non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco, l’ombra sprigionerà una scintilla;
nuova sarà la lama rotta, e Re quei ch’è senza corona “(John R.R. Tolkien).