venerdì 26 novembre 2021

IMAGINE. L'INNO DEL GLOBALISMO NICHILISTA HA 50 ANNI di Roberto Pecchioli


“Immaginate che non ci sia nessun paradiso. Se ci provate è facile. Nessun inferno sotto di noi. Sopra di noi solo il cielo, immaginate tutta le gente che vive solo per l’oggi. Immaginate che non ci siano patrie. Non è difficile. Nulla per cui uccidere o morire e anche nessuna religione. Immaginate tutta la gente che vive la vita in pace. Si potrebbe dire che io sia un sognatore ma non sono l’unico. Spero che un giorno vi unirete a noi e il mondo sarà un’unica entità. Immaginate che non ci siano proprietà. Mi domando se si possa: nessuna necessità di cupidigia o brama, una fratellanza di uomini. Immaginate tutta le gente condividere tutto il mondo. “

E’ il testo di Imagine, la canzone più famosa di John Lennon, l’ex dei Beatles, vero e proprio inno del globalismo nichilista. A ottobre Imagine compirà 50 anni, nel mezzo di una mutazione antropologica senza paragoni.



Il sogno è diventato incubo. La promessa di felicità si è rovesciata nell’angosciante distopia del Nuovo Ordine Mondiale. Mezzo secolo di un’utopia fattasi incubo. Imagine si è trasformato nel tempo in canto globale: spicca la corrispondenza con una parola d’ordine del Sessantotto: l’immaginazione al potere. 
Volevano l'immaginazione al potere...

Il culto di John Lennon è sempre vivo, tanto che a New York, capitale di Cosmopoli, un angolo di Central Park noto come Strawberry Fields (campo di fragole), è diventato il luogo del tributo a Imagine, molto più che un brano musicale: un preciso programma esistenziale. Gli accordi di Imagine, accattivanti, semplici, efficaci, sono risuonati poche settimane fa nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo, a conferma inquietante che l’inno utopico della controcultura giovanile di mezzo secolo fa è la colonna sonora del presente, il canto globalista mainstream più attuale che mai.

L’ Occidente è oggi il mondo di Imagine; siamo parte del sogno di John Lennon, divenuto realtà non per una spinta dal basso, ma per la volontà di potenza del neo capitalismo libertario mondialista.  Viviamo non nella trasvalutazione di tutti i valori, ma nel loro capovolgimento e abolizione. La libertà degli antichi era la partecipazione, l’appartenenza, l’adesione attiva alla polis, quella dei post moderni- a immagine di Imagine- è l’assenza, l’indifferenza narcotica di chi vuol essere “lasciato in pace” e si dimette dalla vita attiva.    

Progetto antropologico realizzato

In origine, Imagine fu l'inno di coloro che sognavano un cambiamento dal basso verso un altro mondo possibile. Adesso è la canzone che meglio rispecchia il programma delle élite occidentali. Imagine ha anticipato e contribuito a creare – forse al di là delle intenzioni - il clima culturale in cui ci troviamo, il capitalismo moralistico o globalismo progressista. Il modello dell’incontro tra la sinistra postmoderna e il progetto antropologico neoliberista figlio del Sessantotto e della fine del comunismo novecentesco.

Imagine nacque come inno dell'utopia e del desiderio, ma basta leggere il testo per capire che i sogni di John Lennon e della moglie Yoko Ono, musa ispiratrice e coautrice, coincidono punto per punto con l’agenda delle oligarchie attualmente al potere. Strana eterogenesi dei fini nell’era in cui capricci e desideri senza limiti né frontiere sono diventati diritti, senso comune di generazioni alla deriva.

Sono tre i desideri che costituiscono il programma antropologico di Imagine. Il primo è la scomparsa della dimensione spirituale. Immaginate che non ci sia il paradiso, né l'inferno, chiede Lennon, incoraggiando a
concepire un mondo senza religione. Senza paradiso non c'è peccato, senza peccato non c'è Dio, senza Dio non c'è diavolo e senza diavolo non c'è inferno. Senza legge divina non ci sono norme, regole, ordine o moralità. Non resta che l'ego individuale di un essere senza trascendenza, un'entità effimera intercambiabile fatta di puro orgoglio. 

Un mondo senza colpa, senza punizione o scintilla trascendente. Al suo


posto, un palcoscenico idealizzato in cui ognuno vive nel presente, installato in un'immanenza compiaciuta. Le società occidentali hanno conseguito l’obiettivo, ma il risultato non è la pace promessa, la felicità, ma nuove angosce e un neopuritanesimo moraleggiante, rabbioso e ateo. Attraverso nuove polarizzazioni politico ideologiche, i vecchi concetti di bene e male resuscitano, invertiti.

L’esito è un maccartismo di risulta, la caccia alle streghe nei confronti di chi non condivide la mitologia progressista. L’avversario è giudicato con categorie morali, ovvero è malvagio, empio, non va quindi sconfitto, ma espulso per indegnità. C’è un buco nero al centro del vortice: il materialismo assoluto reca un rigetto dello spirito che va oltre l’ateismo e sfocia nel nichilismo. Imagine anticipò l'atmosfera culturale che respiriamo quotidianamente ma è anche il sinistro identikit del futuro verso cui ci conducono a tappe forzate i padroni universali. 

Il secondo punto del programma è la scomparsa delle nazioni e delle appartenenze comuni, idea che si riallaccia alla tradizione internazionalista della sinistra, ma che calza a pennello con i i propositi delle multinazionali dall’ avidità senza freni.  Gli echi di Imagine risuonano nell’aspirazione al Nuovo Ordine Mondiale in cui Stati e governi nazionali perdono terreno a favore delle oligarchie. Sogno visionario o concreto incubo? Le nazioni di Imagine sono collegate alle guerre, un’idea efficace, ma semplificatoria. “Niente per cui uccidere o morire", e scrosciano gli applausi. 

La realtà è assai diversa. Al di là dell’allusione bellica, è inane un’esistenza in cui le persone non sentono che vi è qualcosa tanto importante da giustificare un sacrificio radicale. Ma è proprio il tipo di vita senza epica né lirica che si sta inesorabilmente affermando in Occidente, una promessa di vita tra piacere ed assenza di dolore, ridotta al consumo di Netflix, alle amicizie virtuali sulle reti sociali, a un viaggio a Sharm. Questo in tempi normali, poi è arrivata la pandemia.

La terza aspirazione è “immagina che non ci siano proprietà” Basta con l’avidità, avanti con la fratellanza universale. Sogni ricorrenti dell’umanità

Il lettone rivoluzionario di Imagine

bambina, sempre risolti nel loro contrario. Solleticano l’emotività a buon mercato, ma somigliano all’orizzonte, che si allontana man mano che pare avvicinarsi. In più, c’è l’immensa contraddizione di un riccone, John Lennon, portavoce della scomparsa della proprietà privata. Nel video clip d’epoca, l’ambientazione non è una fabbrica o un quartiere popolare, ma un’immensa stanza della tenuta inglese della coppia Lennon-Yoko Ono, e la musica proviene da un lussuoso pianoforte a coda.

La profezia è sconcertante. Tutti i miliardari del mondo hanno scoperto che è possibile gridare contro la ricchezza, discettare su quanto sia bello condividere senza cambiare di una virgola la propria vita. Tutt’al più, presero a finanziare i movimenti impegnati in cause “progressiste”.

La conclamata rinuncia al possesso assume un significato particolare in

I "pacchi" non simbolici di Amazon

relazione al futuro che i vertici del Foro Economico Mondiale, teste pensanti dell’oligarchia, stanno preparando per noi. Non avrai nulla e sarai felice. Tu, noi. Loro no, loro sono e restano padroni di tutto. Questo è il programma enunciato per prepararci a una vita senza beni di (nostra) proprietà, giacché tutto sarà noleggiato, virtuale o provvisorio.

Lennon ispirò altresì il procedimento appropriato per realizzare la rivoluzione: il cambiamento deve avvenire attraverso la convinzione e la seduzione. L’ odio, attribuito sempre all’avversario, è il drago contemporaneo, il mostro dalle mille teste contro cui i buoni devono combattere.

Ma la persuasione, alimentata da un immenso dispositivo culturale, mediatico, pubblicitario e di spettacolo, non è sufficiente. Va accompagnata da campagne intimidatorie a carico dei “cattivi”, per rendere irreversibile il cambiamento. Lennon affermava che la sua non era una guerra di classe: ovvio, non gli conveniva, installato nella sontuosa dimora inglese e nel prestigioso attico di New York.

Disse: non aspettatemi sulle barricate se non con i fiori. Si resta senza parole pensando alla grottesca reazione occidentale alle stragi, islamiste e non solo. Dopo l’attentato al Bataclan, Parigi fu inondata di fiori. Il cambiamento radicale è promosso dalle istituzioni, adornate dei fiori dei buoni propositi. Ramiro De Maeztu affermava che essere è difendersi. Ma per difendersi, appunto, bisogna essere, non lasciarsi vivere senza cause e senza ideali.    

Al successo planetario di Imagine ha contribuito l'impegno della vedova di Lennon, Yoko Ono, che ne coltiva la redditizia memoria e promuove un’iniziativa di successo, l’Albero dei desideri. La formula è semplicissima e di sicuro impatto al tempo di Peter Pan, macchina desiderante. “Esprimi un desiderio. Scrivilo su un foglio di carta. Piegalo e appendilo a un ramo dell'albero dei desideri. Dì ai tuoi amici di fare lo stesso. E continua a desiderare finché i rami non saranno pieni di desideri". Infantile. Il 13

La Torre della Pace 

ottobre, cinquantesimo compleanno di Imagine, i desideri verranno raccolti e inviati all’ Imagine Peace Tower, la Torre della Pace di Imagine, un'installazione luminosa in forma di scultura.

Più di un milione di desideri da tutto il mondo sono stati sepolti nella Imagine Tower sull'isola di Videy, in Islanda. Una torre trasformata in metafora del nostro tempo: il diritto di desiderare e il desiderio come diritto, ma senza impegno, senza sforzo personale. Un imbarazzante fiera della banalità, delle parole al vento, che persuade tuttavia i partecipanti di far parte dell’esercito disarmato dei buoni, quelli che “desiderano” un mondo unito e, inevitabilmente, migliore. Aria fritta, e sorprende quanto sia facile ingannare tanta gente con musica accattivante e frasi fatte.

Tutto nacque negli anni Sessanta del secolo passato, tra giovani amanti della musica, delle esperienze psichedeliche e della cosiddetta controcultura, pochi dei quali immaginavano il destino finale della loro utopia tribale, acida e promiscua. Quella trasgressione – estetica e superficiale – finì per diventare una corrente di massa, il nucleo dell'attuale cultura egemonica volta al nuovo ordine mondiale. L'eredità è ora nelle mani di anziani magnati straricchi che stabiliscono gli standard del pensiero unico e impongono la narrativa globalista. Dal sogno all'incubo in un paio di generazioni.

La falsa rivoluzione della pace e dell'amore incarna oggi il politicamente corretto, imposizione planetaria di un unico modello sociale, comportamentale, antropologico che produce una molteplicità indifferenziata, intercambiabile, seriale: atomi solitari diversamente uguali  Neutralizzando le caratteristiche naturali che costituiscono l’ identità di persone e comunità e infine cancellandole, immaginano di costruire il paradiso in terra , seguendo il marketing e la narrativa del potere egemonico. Così il sogno ad uso dell’ingenuità di massa, senza confini né differenze, diventa realtà, ovvero inferno. 

Un’ utopia che si incastra perfettamente nell'agenda globalista, introdotta come un cavallo di Troia nella cultura popolare durante il secolo scorso, funzionante con successo per il suo effetto oppiaceo.

Lennon, paradigma del progressista ricco con cattiva coscienza, ha

Droga libera: nel programma dei governi

riassunto le intenzioni e gli obiettivi dei potenti che teoricamente detestava. Imagine potrebbe essere tranquillamente eseguita da Klaus Schwab al Foro Economico Mondiale di Davos. Tratteggia un gregge umano calato esclusivamente nell’oggi. Se c'è solo presente non c'è passato né futuro, non ci sono radici né destino, e, a essere obiettivi, neppure progresso. Resta il piacere immediato senza autocoscienza, né mete, né figli: la fine dell'Essere in quanto tale.

Immaginate dunque che non ci siano paesi, niente per cui uccidere o morire, e nessuna religione. Immaginate tutte le persone immerse in un sonno definito pace. Impossibile, ma sarebbe comunque una pace mortuaria, zootecnica, un nirvana privo di tensione spirituale. Si tratta della prima proposizione del mondo senza confini dell'agenda globalista, con la vittoria della demotivazione esistenziale, la fine della volontà e la scomparsa metafisica dell'Essere. Le persone “vivono in pace", ovvero indifese e prive di reazione, l’avvento finale del Nuovo Ordine Mondiale.

Spero che un giorno ti unirai a noi e il mondo sarà uno, concludeva mezzo secolo fa l’ex ragazzo di Liverpool: il primo, perfetto riassunto politicamente corretto. Il miliardario lotta per la pace a letto con la moglie Yoko, circondato dai domestici: sono i fotogrammi dell’epoca. Quanto è comodo odiare la proprietà privata nel giardino della tenuta inglese o dalla terrazza con vista su New York, capitale dell’Impero. Sconcerta che milioni di persone (ingenui, cretini, vittime di un inganno universale o tutte queste cose insieme) gli abbiano creduto e abbiano immaginato con lui.

Il culmine del messaggio di Imagine è la richiesta di farla finita con l’avidità e la fame, nonché la promessa della fratellanza. L'inferno a cui non dobbiamo credere è lastricato di buoni propositi. Lennon conclude con il piglio del profeta: “e il mondo sarà uno, tendendo il filo della controcultura degli anni Sessanta nel progetto prometeico dei ricchi magnati sedicenti filantropi che si credono dèi.  

Prima

Imagine
divenne l'inno pacifista, utopico, tollerante, unica balbuziente reazione all'avanzata della barbarie, l’anestetico di una civiltà che rifiuta e ripudia la difesa e la lotta. Una messa in scena a base di colombe della pace e arcobaleni, una grottesca Woodstock in 5G che si ripete più e più volte in risposta alla realtà, che ha la pessima abitudine di tornare a galla e non ha sufficiente immaginazione. Imagine è l’inno ufficiale dell’occidente agonizzante: l’idealizzazione banale, a buon mercato, il catechismo ateo della società dell'iperconsumo e del piacere illimitato, l’epifania di uno strano capitalismo un po’ figlio dei fiori, un po’ comunista, ma sempre violento, oppressore, nemico dell’uomo, una religione secolare sostitutiva.

Dopo

Imagine
compie mezzo secolo. E’ giunto a compimento il tempo immaginato da Nietzsche con un secolo di anticipo. “Io affermo che tutti i valori in cui l’umanità compendia la sua idealità suprema sono valori di decadenza.” Immaginava il giusto e diventò pazzo. John Lennon fu ucciso a quarant’anni da un ammiratore deluso. L’immaginazione non è andata al potere, la credulità popolare è plastilina nelle mani dei padroni del mondo. Imagine

 

martedì 10 agosto 2021

CE LA FAREMO AD USCIRE DALLA CRISI? di Rino Tartaglino

Una scena consueta negli anni Sessanta
Chi ha più di una certa età sa come si viveva negli anni ’60; avevamo dei valori consolidati e condivisi, una certezza del presente ed una speranza in un futuro migliore. Se guardiamo al presente è crisi su tutta la linea. Col prevalere in politica del laicismo, si ha l’etica dei diritti dove ogni devianza diventa tutelata quindi, il degrado morale è l’unica certezza. Il disordine sociale ampliato anche dall’immigrazione selvaggia, la de-industrializzazione, la disoccupazione sono i segni più evidenti della crisi economica. In più si è aggiunta la crisi sanitaria. Adesso si deve realizzare la grande transizione ecologica – vogliono cambiare il clima; come se fosse nelle nostre possibilità – che creerà dei costi e non si sa quali risultati. L’opinione corrente è che il domani possa essere peggiore del presente. Queste situazioni di crisi sono determinate da leggi interne, da accordi internazionali che volendo tutelare il libero mercato spesso penalizzano economie più deboli. La de-industrializzazione ci è stata imposta sempre per la storia del libero mercato. Il peso del

Il conflitto familiare: un segno del nostro tempo

debito pubblico è conseguenza del fatto che la banca centrale non finanzia il debito pubblico e mette l’Italia alla mercé della speculazione. Così la distruzione della morale nella società ci è stata imposta con la storiella dei diritti. Per non parlare dell’invasione dei migranti che dobbiamo subire per non essere accusati di razzismo e xenofobia. Adesso che sappiamo di aver sbagliato quasi tutto ci domandiamo: "chi comanda in Italia?". Noi andiamo a votare, eleggiamo dei candidati e poi ci rendiamo conto che le decisioni più importanti vengono dall’Ue che a sua volta fa gli interessi dell’alta finanza mondialista. Quando un partito si definisce atlantista ed europeista vuol dire che accetta questa situazione di potere. Tutti i partiti escluso Lega e Fratelli d’Italia sono europeisti a quel modo, protestano un po’ quando da Bruxelles arrivano disposizioni contrarie ai nostri interessi, ma poi accettano. Lega e FdI e quel che resta di Forza Italia riusciranno ad acquisire peso in Italia ed in Europa tanto da cambiare questa Ue? Ci auguriamo riescano nel loro intento; ma dubitiamo abbiano successo. I loro avversari e i signori di Wall Street faranno di tutto per impedirlo. Il momentaneo governo Draghi anche se avrà qualche effetto positivo, le grandi linee della politica economica sono già tracciate: sistema economico ecosostenibile, digitalizzazione (Grande Reset) e austerità a partire dal prossimo anno. Intanto di ecologico abbiamo visto solo l’aumento delle bollette luce e gas. Finiranno per chiudere certe aziende e ne sorgeranno altre meno numerose. L’austerità porterà all’aumento delle imposte e ad un impoverimento. L’immigrazione continuerà a pesare perché l’Ue non è interessata ad impedirla e la mafia di Wall Street che pensa al Nuovo Ordine Mondiale l’immigrazione in Europa serve a far perdere l’identità dei popoli per renderli più controllabili. La corruzione della società continuerà con l’invenzione di nuovi diritti. Anche questo aspetto serve come strumento di potere. Un popolo di zombi a detta dei mafiosi di Wall Street è più manovrabile. L’ideologia mondialista è così penetrante nella società che è in grado di condizionare tutto. . Tutti i mezzi di informazione sono al servizio di questo potere. Abbiamo visto come la conduzione dei governi nella lotta alla pandemia sia stata come volevano le imprese farmaceutiche tutto incentrata sui vaccini lasciando i pazienti senza cure. Molte pubblicità di prodotti di uso corrente si avvalgono di scenette gay. Gli sportivi devono inginocchiarsi per evitare ricatti. Dal punto di vista economico una parte consistente del nostro debito è in mano alla speculazione che può in qualsiasi momento mettere l’Italia in difficoltà. Per tutti questi motivi e lo stato avanzato di condizionamento sociale da parte dell’élite mondialista, le prospettive future non sono rosee. Mettere in ginocchio l’Italia sarebbe un importante passo avanti verso il Nuovo Ordine Mondiale.

martedì 3 agosto 2021

LA CANCELLAZIONE DELLA MEMORIA di Roberto Pecchioli

Se avessimo la capacità di elencare e descrivere tutte le modalità di decostruzione dell’umano in atto nella post modernità, dovremmo compilare un’enciclopedia senza fine. Il laboratorio per la distruzione, come lo chiamava l’antropologa Ida Magli, l’officina di Vulcano anti umana e transumana, lavora h.24, non va mai in ferie e si pone ogni giorno nuovi obiettivi, vincendo le sue ignobili battaglie per assenza di contraddittorio nell’Occidente in bilico tra il tramonto e la notte.  
Uno degli obiettivi del nemico è la cancellazione della memoria. Traiamo la sua definizione da Wikipedia, la Bibbia globalista politicamente corretta: "la memoria è la funzione psichica e neurale di assimilazione, attraverso dati sensibili provenienti dall'ambiente esterno mediante fattori percettivi quali gli organi di senso, e l'elaborazione di questi dati attraverso la mente e il cervello sotto forma di ricordi ed esperienza al fine dell'apprendimento, dello sviluppo dell'intelligenza e della capacità cognitive, psichiche e fisiche dell'individuo. "il più diffuso criterio di classificazione si basa sulla durata della ritenzione del ricordo, con l'identificazione di tre tipi diversi di memoria: la memoria sensoriale, la memoria a breve termine (MBT) e la memoria a lungo termine (MLT). 
Rimaniamo sul terreno della neurofisiologia e della biochimica: ai fini della memoria, operano due distinte fasi di modellazione delle sinapsi (le connessioni funzionali tra due cellule nervose o fra una cellula nervosa e l'organo periferico di reazione). L’ MBT ricorre all’ausilio di proteine preesistenti, per modificare in maniera temporanea l’attività sinaptica, mentre l’MLT ha bisogno dell’attivazione di geni e la sintesi di proteine nuove. Questo significa – al di là di ogni giudizio etico, culturale ed antropologico -
che chi ci espropria della memoria, chi atrofizza questo straordinario strumento di apprendimento, vita e conoscenza, sta agendo per distruggere una delle principali facoltà umane, cancellare una parte della nostra umanità e della nostra individualità. Abolire, manipolare, diminuire la memoria è dunque un crimine contro l’umanità e l’integrità della persona. Già Cicerone osservava che la “memoria diminuisce se non la tieni in esercizio”.           
Manuel Castells, ministro dell'Università del governo spagnolo
Perdonerà il lettore l’elaborata premessa, necessaria ai fini delle riflessioni che seguono. I ladri di memoria, purtroppo, sono al potere: culturale, scientifico, accademico, tecnologico. Uno di loro è Manuel Castells, ispano-americano, sociologo di formazione marxista, autore della trilogia La società dell’informazione, uno dei maggiori studiosi dell’età delle reti e del potere di Internet. Castells, giunto all’alba della terza età (è del 1942) è ora ministro dell’Università nel governo spagnolo. La sua più recente affermazione, ripetuta durante un’intervista a canali internazionali e ribadita in incontri con i docenti del suo paese, è che “la memoria ha sempre meno senso nell’istruzione poiché tutto è in Internet."        Dunque, non ha alcuna importanza “accumulare informazioni” e chiede ai professori di trasformarsi in “guide intellettuali del processamento dell’informazione “, ossia del trattamento automatico di dati da parte di un computer. Triste fine dei maestri e degli educatori, declassati a semplici istruttori della raccolta informatica delle nozioni, a cui sono declassati la conoscenza, l’istruzione, il sapere. Castells va oltre e ripete vecchi slogan ammuffiti del Sessantotto, generazione alla quale appartiene: “Non è importante accumulare informazioni (a questo è ridotta la cultura N.d.R.), né ripetere come pappagalli, poiché l’informazione diventa obsoleta in pochissimo tempo, bensì sviluppare la capacità autonoma dello studente di processare informazioni, innovare e applicarle a quei campi che intende sviluppare da sé".        Puro distillato del Sessantotto, con la stravagante teoria dell’auto apprendimento, aggravata dalla fiducia illimitata nel dispositivo tecnico e dal disprezzo per il ruolo degli educatori, ridotti a tutor dei motori di ricerca, nonché dall’indifferenza per la cancellazione di millenni di cultura/civiltà (pardon, informazioni…), la cui persistenza e trasmissione è affidata proprio alla memoria. Quella individuale e quella collettiva, che
Dalla biblioteca....

diventa storia, deposito comune, cultura nel senso più ampio del termine. Contrordine: bastano un computer o uno smartphone e la perizia nella ricerca. L'era digitale diventa – banalmente – quella delle dita che battono sulla tastiera, guidate dalla memoria a breve termine, orientate dalla nuova Bibbia, il motore di ricerca che sceglie per noi, nasconde ciò che il Dominio disapprova o vuole celare e impone una patina di conoscenza immediata, superficiale e preordinata. La memoria a lungo termine diventa il deposito dell’obsoleto, dell’inutile, un cestino dei rifiuti da svuotare ogni giorno e chiudere per cessata attività. E’ l’impero di Google e della pagina iniziale di ogni ricerca, a cui si attiene oltre il novanta per cento degli utenti.   
...allo smartphone

    Esercitare la memoria, trattenere le “informazioni”, il cui destino è la rapida obsolescenza, sarebbe quindi un futile esercizio animale – da pappagallo- e la sapienza consisterebbe non nel padroneggiare le materie, ma nella perizia nel rintracciare i dati. Oltretutto, le ricerche su Internet, per avere un senso, devono essere sostenute da qualcosa che si sa già, che si è metabolizzato e inserito, con tanto di giudizio e spesso con fatica, nella cartella interiore che contiene tutti i file della MLT. Altro che pappagalli e merli parlanti. La memoria è il salvadanaio dello spirito, va custodita, alimentata, trattata con amorevole cura.         
Viene in mente un intellettuale comunista, Dario Fo, che la pensava assai diversamente da Castells. Nella rigida semplificazione marxista, scrisse che il padrone conosce mille parole e l’operaio trecento: perciò è il padrone. L’ignoranza va quindi contrastata con la conoscenza, e la cultura – di cui la memoria è un elemento decisivo- è l’unico valido ascensore sociale e la sola possibilità di vivere da uomini e non da automi servili. Una volta di più, la diabolica alleanza tra i padroni del mondo – che possiedono i canali di diffusione culturale e la tecnologia informatica che li amplifica- e l’intellettualità post marxista è la tenaglia che schiaccia popoli e individui. Il doppio binario dei decostruttori desta indignazione. Per la maggioranza, la memoria è e smantellata attraverso un’istruzione sempre più scadente, tra follie come la didattica a distanza (DAD) e scuole trasformate in fabbriche di diplomi e lauree. Gli altri, i predestinati a dirigere la società per censo, cooptazione e tradizione familiare, ricevono un’istruzione di ben altro livello in cui le materie abolite o sconsigliate alla massa (storia, geografia, filosofia, diritto, persino l’eloquenza) continuano a far parte del bagaglio intellettuale. La memoria non è un inutile orpello, ma il primo strumento della conoscenza.     Abolire la memoria a favore dell’informazione spicciola, ridotta a “abstract”, l’estratto degli apparati informatici, è un’operazione profondamente classista, che riproduce e rafforza il potere di chi è padrone di tutto. Se ci esprimessimo con il linguaggio dei banditori della Memoria Informatica a Brevissimo Termine, diremmo che è “di destra”. Sapere è potere: inevitabilmente ha a che fare con lo studio, la fatica, la costanza, la memoria. Conoscete un fisico o un matematico che – con grande sforzo- non abbia memorizzato formule e teoremi, compresi in genere solo dopo averli faticosamente ritenuti nella memoria, interiorizzati? Si possono imparare le lingue con una passeggiata virtuale su Internet, oppure occorre la lenta elaborazione mnemonica delle regole grammaticali, sintattiche e lessicali?  Da tempo si aborre lo studio a memoria di poesie e o passi letterari: doppio errore. Da un lato, si impedisce alla mente di allargarsi attraverso la fissazione nella MLT (che è sempre elaborazione individuale, non semplice processo automatizzato!) di eccellenze culturali, dall’altro si impedisce un esercizio che aumenta le nostre possibilità: la funzione crea l’organo. Il musicista, l’artista, ma anche l’artigiano e l’operaio, acquisiscono le loro abilità- manuali o intellettuali- attraverso un processo in cui la memoria ha un posto determinante, fino a diventare qualcosa di già dato, una sorta di automatismo figlio dell’accumulo di saperi, gesti, meccanismi introiettati nel tempo, fissati nella memoria.    Il fondatore dell’antropologia filosofica Arnold Gehlen parlò di “esonero”, ovvero della capacità dell’uomo di liberarsi dall’ eccesso pulsionale attraverso la cultura L’esonero è l’onere da cui la nostra specie viene liberata acquisendo modalità di azione che selezionano che cosa fare e come farlo. Un agire esonerato diventa sicuro, stabilizzato, quasi istintivo; gli atti complessi vengono svolti pressoché in automatico- pensiamo alla guida di un automobilista esperto - permettendo l'impiego delle energie per scopi superiori, ad esempio guidare e insieme conversare con i compagni di viaggio. Senza memoria, non c’è esonero, ossia l’homo sapiens cessa progressivamente di essere tale.   La nostra convinzione è che quello sia l’obiettivo finale del Dominio: di decostruzione in decostruzione, l’uomo diventa a sua volta meccanismo, attivato da remoto in base a riflessi condizionati e all’apprendimento di gesti strumentali eterodiretti. L’insegnante, il maestro di ieri, diventa un semplice istruttore dei comportamenti voluti dall’oligarchia, come utilizzare lo schermo e la tastiera degli apparati informatici per compiere qualsiasi atto, prendere ogni decisione, elaborare conoscenze da dimenticare in fretta in omaggio all’obsolescenza cara a pessimi maestri. La natura delle istruzioni impartite è lo specchio della volontà del potere teso a cambiare l’uomo attraverso la sua “denaturazione”, ossia l’allontanamento dalla natura e dalle facoltà che gli ha attribuito. Una è la memoria selettiva, che permette di conoscere, ricordare, compiere scelte autonome, possedere criteri di giudizio. Senza, siamo ostaggi di un falso sapere filtrato dai padroni della tecnologia, coloro che ordinano gli algoritmi attraverso i quali la rete (chi la controlla) distilla le conoscenze ammesse, le idee giuste e quelle proibite.  Non c’è pensiero critico senza selezione dei contenuti e tale selezione è impossibile senza memoria. Fu straordinaria l’intuizione di George Orwell sul totalitarismo che impedisce il dissenso abolendo il linguaggio attraverso cui esso si esprime. Fare memoria significa ricordare eventi storici, trasmettere principi, fatti, idee. Anche l’arte è memoria: chiunque abbia uno spirito non addormentato avverte la differenza tra una cattedrale gotica e la triste chiesa- cubo dell’architetto alla moda Fuksas a Foligno. Quella simil-chiesa non sarebbe stata costruita se avessimo conservato la memoria dello spirito, l’idea che un edificio assolve una funzione e suscita dei sentimenti.  Perdere la memoria significa dover accettare tutto e il suo contrario in nome dell’oggi e sulla base della volontà insindacabile dei padroni che l’hanno espropriata. Senza memoria, l’uomo è una tabula rasa, una lavagna che cancella mentre vi si scrive. Non esisterebbe la tradizione orale: nessuno ci avrebbe trasmesso Omero e tutte le culture avrebbero smarrito i loro fondamenti. Ecco perché l’operazione di asportazione della memoria – spacciata come cultura rinnovata in linea con i tempi – è un colossale imbroglio, un furto terribile a danno di tutti e di ciascuno, dei viventi e di chi nascerà in un mondo snaturato e smemorato.    Il nostro destino non è Alexa, o Siri, suadenti voci virtuali, assistenti informatici che sostituiscono la vita reale. Sgomenta la plasticità, la docilità dell’uomo-gregge al nuovo destino. Ma già, anche Dante è fuori moda e nessuno ricorda più a memoria (“a pappagallo”) “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.  La più grande creazione del pensiero astratto, diventata base pratica di ogni scienza, è la matematica. Senza la memoria, senza l’applicazione di geniali visionari non avremmo il numero, il calcolo, architrave della capacità di dominio sulla natura di cui andiamo tanto fieri. Ma anche l’esercizio del calcolo matematico è obsoleto: in pochi attimi, i problemi sono risolti in rete dall’apposito programma algoritmico, e la tragedia è dimenticare che ciò è possibile poiché qualcuno non ha “processato dati”, ma li ha immaginati, inventati, sottoposti a verifica, mandati a memoria e offerti al prossimo come patrimonio comune.   Il signorino ignorante è soddisfatto di sé perché sa maneggiare alcuni apparati, ma ignora i fondamenti, le leggi, l’enorme accumulo di memoria, conoscenza, trasmissione che ne hanno reso possibile l’esistenza. La battaglia “per” la memoria è dunque una lotta tesa a conservare le capacità, le scintille divine che hanno reso homo sapiens sapiens la scimmia nuda e quasi priva di dotazione istintuale. Il declino della memoria, la sua sostituzione con il dispositivo rappresenta altresì la negazione della scienza e la vittoria della dipendenza dalla tecnica. Per ciascun uomo, la memoria è la miniera da cui scegliere e poi estrarre conoscenze e idee nei vari momenti della vita.  La letteratura distopica ha prefigurato il raccapricciante mondo privato della memoria. Fahrenheit 451 descrive un tempo in cui compito dei pompieri è di bruciare i libri, il deposito di tutto ciò che è stato detto, fatto, vissuto, pensato. Il ribelle, Guy Montag, è colui che tradisce il suo ufficio e conserva, nei libri, la memoria. Nel Dio Thoth, Massimo Fini prefigura un mondo in cui esiste solo ciò che è diffuso dall’altoparlante del potere e nella biblioteca universale non si trova più l’Amleto di Shakespeare, ma solo riassunti o brevi citazioni, nascoste tra miliardi di dati inutili: la distopia della riduzione, il Bignami universale che nasconde e non spiega, il simulacro della memoria. Per lo psicologo cognitivo Alan Baddeley, studioso della memoria, essa è “la capacità di immagazzinare informazione e di avere accesso ad essa. Senza la memoria saremmo incapaci di vedere, udire e pensare. Non avremmo un linguaggio per esprimere la nostra situazione e di fatto neppure un senso della nostra identità personale. “Questa è la posta in palio, questo ci stanno rubando.  Pure, accanto alla memoria, sussiste nell’uomo una spinta naturale alla selettività del ricordo, una necessità dell’oblio di ciò che diventa zavorra. Eugenio Montale chiedeva di dare tempo alla memoria per compiere il suo primo e più impellente ufficio: dimenticare. Per Jorge Luis Borges, la memoria, oltre un certo limite, è un dramma, un aspetto del labirinto della vita. Nel libro Finzioni vi è il racconto Funes o della memoria, la storia di un uomo la cui prodigiosa memoria gli permette di cogliere e rammentare ogni dettaglio di tutto ciò che lo circonda. Funes rammenta ogni cosa, ma non è in grado di formulare idee generali: registra solo particolari e non concetti compiuti. Questa condizione lo conduce all’isolamento, all’incomunicabilità e alla morte.  “Sospetto che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati”. E’ questa la grandezza dell’uomo: scegliere, accogliere e tralasciare, ricordare e dimenticare. Se la nostra condizione è il labirinto, l’esito di un uomo smemorato, dipendente dagli apparati e dall’attimo, è la mancanza di pensiero. Uguale e contrario al povero Ireneo Funes, “il memorioso”.  
 



venerdì 4 giugno 2021

L'ANNO DEL PROCIONE, L'ERA DEL CONIGLIO di Roberto Pecchioli

In Cina, ogni anno è denominato simbolicamente attraverso gli animali. Il 2020 è stato l’anno del topo (il pipistrello di Wuhan altro non è che un topo con le ali…) mentre quello corrente è l’anno del bufalo. In Europa il 2020, anno primo dell‘era pandemica, è stato l’anno del procione. In una grande nazione europea, la Germania, il governo ha diffuso un video ufficiale relativo al Covid 19, diventato popolare anche nel resto d’Europa, ambientato in un lontano futuro, in cui la voce narrante è di un vecchio che racconta un’esperienza giovanile in forma di apologo.

“Era l’inverno del 2020 quando tutti gli occhi del paese si rivolsero verso di noi. Avevo appena compiuto ventidue anni, studiavo ingegneria a Chemnitz quando arrivò la seconda ondata. Ventidue anni, l’età in cui vuoi far festa, studiare, conoscere nuove persone e tutto il resto. Andare a bere con gli amici. Il fato però aveva un piano diverso per noi. Un pericolo invisibile minacciava tutto ciò in cui credevamo. Improvvisamente, il destino del paese fu nelle nostre mani. Radunammo tutto il nostro coraggio e facemmo quello che ci si aspettava da noi, l’unica cosa giusta da fare: niente. Assolutamente niente. Fummo pigri come procioni. Notte e giorno abbiamo tenuto le chiappe a casa. È così che abbiamo combattuto contro la diffusione del virus. Il divano era il nostro fronte, la pazienza era la nostra arma. Sai, ogni tanto sorrido quando ripenso a quel periodo. Quello fu il nostro destino. Così diventammo eroi. Nell’inverno del coronavirus del 2020.”

Pigri come procioni, gli europei terminali diventano per questo “eroi”. Viene voglia di dare ragione a un altro tedesco, il drammaturgo comunista Bertolt Brecht: beato il popolo che non ha bisogno di eroi. Beninteso, se sono di questo tipo. Oblomov sul trono, l’immobilità come epopea, l’obbedienza come sfondo: “facemmo quello che ci si aspettava da noi “. Per riuscirci, dovettero ricorrere a “tutto il loro coraggio”. Tempo di procioni e di conigli, la paura eretta a virtù e la sequela dei padroni del gregge innalzata a modello di comportamento.  Difficile immaginare un inno alla decadenza, alla mediocrità e al conformismo più potente del pistolotto “educativo” dell’ex ragazzo del 2020. Enorme il disprezzo diffuso per l’attività, il lavoro, l’impegno.

Il procione è l’eroe dei nostri giorni per la sua pigrizia, come il coniglio, con il suo timore, il nascondimento e l’indole imbelle diventa l’immagine di un’era che fa della paura, della pura sopravvivenza, un ideale positivo, addirittura un modello proposto ai giovani.  E’ una malattia in più, non solo un effetto collaterale del Coronavirus: l’uomo-procione si sta ammalando di accidia, il settimo peccato capitale, il virus è sparso dall’alto, gli untori sono al potere. Il vero superlavoro non sarà dei virologi, ma degli psicoterapeuti alle prese con generazioni depresse, impaurite, confuse. Si resta esterrefatti per la coincidenza dei nuovi (dis)valori capovolti con la neolingua di Orwell: oggi la paura è coraggio, ieri “la verità è menzogna, l’ignoranza è forza, la guerra è pace”.


L’origine della nostra civiltà è nel racconto del Genesi: Adamo, il primo ribelle, deve procurarsi da vivere col sudore della fronte. Non si tratta di un castigo, ma di una condizione antropologica. A un’attività che sottopone a sforzi, pericoli ed impegno corrisponde un determinato sviluppo cerebrale e morale. Allo stare sul divano ne corrisponde un altro, ben più misero. Stiamo perdendo per sempre una generazione istupidita dallo stop generalizzato, costretta sul divano davanti a uno schermo, passiva, mero recettore di immagini, contenuti e idee elaborate altrove, privata della scuola e del contatto con i coetanei – l’indispensabile “gruppo dei pari “- e con l’educazione dei maestri. Più ignoranti, meno intelligenti e creativi, timorosi della scoperta e dell’esperienza, diventati rischi da evitare. Giovani bloccati e chiusi: colpevoli se affollano le strade della “movida” (che significa esattamente movimento); definiti di volta in volta intollerabili, irrazionali, ingiustificabili i loro “assembramenti” che non sono altro che volontà di vivere. Spaventa la povertà del traguardo imposto. Rinserrato in casa, connesso a pc, smartphone e televisione, l’uomo – e in particolare il giovane – è invitato non avere altri obiettivi oltre alla tutela della salute. Il senso della vita diventa allontanare la morte, l’indumento indispensabile è la maglia di lana.  

Quali imprese, quali progetti, immaginerà la generazione dei procioni, delle pecore e dei conigli? La grandezza degli uomini e dei popoli sta nell’esempio, nell’adozione di modelli elevati da imitare e superare. Se il modello è Oblomov l’immobile, il destino è segnato, virus o non virus. C’è di più: è la prima volta il governo di una grande nazione europea definisce coraggio il blocco, l’inazione, l’attesa passiva di qualcosa di salvifico che sblocca la situazione. Tutto viene da “fuori”, anche la fine del virus, per scomparsa, esaurimento o immunizzazione. Noi aspettiamo, rinchiusi ma connessi. La relazione con l’esterno è la voce del potere, il fischio del pastore, degli impresari del terrore. Ricordate il vecchio logo di una casa discografica, il cane felice accanto a un grammofono dalla cui tromba esce la voce del padrone?   

Che uomini e donne si formeranno al tempo del procione? Certo nessun eroe, pochi dissenzienti e ancor meno personalità libere di cuore e di animo. La società che stanno creando – con la complicità di un’epidemia che sempre più appare lo strumento gradito, se non provocato, di un preciso progetto di ingegneria sociale – impedirà, almeno a medio termine, qualsiasi cambio di direzione rispetto al cammino tracciato dall’alto, chiamato Agenda 2030. Ogni popolo, affermò Joseph de Maistre, ha il governo che merita. Nessun vittimismo, nessun destino cinico e baro. Nessun procione è mai andato al potere e ha cambiato il mondo, il coniglio non organizza ribellioni.

Privato di trascendenza e di destino, cancellata l’immaginazione, l’uomo-procione perde la sua identità e la sovranità su se stesso. La parola d’ordine è accettare tutto stando immobili, obbedire con lo stesso zelo con cui ieri si aborriva il divieto. Quanto all’immaginazione al potere, chiusa per cessata attività: che cosa può immaginare il procione, se non attendere il bollettino terroristico quotidiano del virus, rabbrividire, chiudere a doppia mandata finestre e chiamare coraggio la rinuncia a vivere? La parola d’ordine è accettare tutto senza avere in cambio nulla che non sia la speranza della sopravvivenza biologica. Stanno plasmando una generazione di zombie impauriti, ma dimenticano che l’anima umana possiede una volontà e una scintilla divina. Per quanto legioni di pompieri si impegnino a spegnerlo, un fuoco tenace coverà anche sotto la cenere della tana dei procioni.

La vita è un continuo rischio, una prova da superare ogni momento. Non si può evitare il rischio così come non è possibile scansare indefinitamente il dolore, altro incubo della società analgesica. La rimozione del pericolo, dell’incognito, del dolore e della morte per costruire un Eldorado di piacere, sonnolenza e tranquillità restano sogni impossibili: l’immunità che esigiamo è immaginaria. Anche il procione, ignaro eroe dei giorni nostri, alla fine muore. La vita non è una malattia: trascorrerla nel liquido amniotico, a debita distanza dal prossimo, non ci renderà immortali. E’ sicuramente troppo riuscire a far sì che “ciò su cui non possiamo nulla, nulla possa su di noi”, arduo programma esistenziale a cui esortava Julius Evola, ma è vero quanto fa dire Shakespeare a Giulio Cesare: chi ha paura muore mille volte, chi ha coraggio una sola.  

Questa incredibile sottocultura della bambagia e della protezione ad ogni costo ha trovato la sua fata turchina, tedesca come i teorici dell’uomo-procione: è la presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, che distilla ovvietà con il tono pensoso di chi enuncia verità ultime e arcane. Stiamo entrando in un’era delle pandemie e anche dopo il Covid il rischio resta, ecco il geniale apoftegma di Ursula, matrigna e padrona premurosa degli europei regrediti a procioni. Malattie e pandemie ci sono sempre state, è ragionevole immaginare che sì, il rischio sanitario resterà un compagno inseparabile della vicenda umana. Sempre ci fu la paura, ma non diventò mai scenario alimentato dal potere. Oggi domina chi riesce a terrorizzare le masse sino a istituire una sorta di potere delle fobie, “fobocrazia”. I virus – ben più letali del Covid 19-  hanno accompagnato ogni epoca, ma è la prima volta che la stravolgono nella pratica e nell’essenza, pur avendo oggi l’umanità strumenti più potenti per combatterli. La signora Von der Leyen-  maschera da fata turchina e condotta da Crudelia Demon- semina panico calcolato ai procioni di ogni età seduti in poltrona per decreto.

Immunità di gregge rinforzata da mascherina
Se “il rischio resta”, vaccino o no, immunizzazione di gregge o meno, non si tornerà alla “normalità” di ieri. Ad ascoltarli restando svegli, non assopiti nella tana, i superiori parlano chiaro. L’ incubo virale rimarrà e, attraverso la dolce signora della Commissione Ue, l’oligarchia ci offre la sua “protezione”. Non è lo stesso atteggiamento della mafia nei confronti di coloro a cui estorce il pizzo? La loro protezione passa per il nostro silenzio e la riduzione a conigli impauriti. La leva è la stessa della criminalità organizzata: la paura. Potere del panico, fobocrazia in cui domina chi diffonde, alimenta e gestisce il timore di massa. L’apocalisse durerà a tempo indeterminato perché così hanno deciso in alto loco: che bello- per chi sta lassù- un mondo di procioni in maschera!

Chi vive nel panico non ragiona, obbedisce in nome della pellaccia. E’ la fifa, la vecchia fifa. Il potere lo sa e spegne con secchi d’acqua gelata il fuoco della speranza generata dai vaccini. La tecnica non è nuova: creare paura, diffondere ansia, minacciare e poi in qualche misura tranquillizzare. Il poliziotto buono e quello cattivo. Chi ha seminato il veleno, possiede l’antidoto, ma esige sottomissione. Studia da quasi un secolo le tecniche di persuasione di massa, ha elaborato strategie di dominio raffinatissime, in fondo facili da mettere in pratica, se si possiede o controlla l’istruzione, la cultura e si impone, come si dice dopo Lyotard, la “narrazione”.

La Fabbrica dei diritti
Le regole del controllo sociale sono note: Noam Chomsky ne ha elencate dieci. La prima è la strategia della distrazione – la possiamo anche definire dell’ignoranza pianificata- e consiste nel deviare l’attenzione dai cambiamenti decisi dalle élites economiche e tecnologiche e messi in pratica dal sottostante livello politico, inondando il pubblico di informazioni insignificanti o addirittura false, credute per ripetizione. Essenziale è creare problemi, per offrire poi le soluzioni, che devono essere invocate ed introiettate con un sospiro, inevitabili e necessarie. Ci si deve rivolgere la pubblico come a dei bambini – o a dei procioni – per determinare una reazione infantile, facilmente controllabile e manipolabile.  Si deve usare il registro emotivo, non invitare alla riflessione, provocare un cortocircuito di istinti che allontani l’analisi razionale. L’uso del registro emotivo permette di aprire la porta dell’inconscio per impiantarvi idee, desideri e paure e timori.

Occorre mantenere la gente nella mediocrità che impedisce di comprendere, perfino di sospettare l’esistenza di tecniche e i metodi per il controllo e la dominazione. Indurre ad essere volgari, stupidi ed ignoranti- procioni addormentati- è un’altra delle tecniche del potere, che rafforza la colpevolizzazione di sé. Il procione è responsabile delle sue disgrazie: non è rimasto abbastanza fermo, non si è “distanziato” sufficientemente, non ha seguito a dovere le istruzioni diffuse a reti unificate. Senza azione, peraltro, non c’è rivoluzione, o almeno dissenso organizzato. Nessun cambiamento è mai stato provocato da popolazioni chiuse tra le mura domestiche.  L’ultima regola di Chomsky è una constatazione: il potere ci conosce assai meglio di quanto noi stessi ci conosciamo.  Questo è ancora più vero al tempo della sorveglianza digitale, della profilazione e della predittività dei comportamenti attraverso l’uso delle tecnologie informatiche e dalla generalizzazione di modelli matematici sempre più sofisticati.

Adolescenti in trappola

Ha una certa importanza anche l’introduzione di concetti come la cosiddetta piramide di Maslow.  Lo psicologo statunitense Abraham Maslow teorizzò una gerarchia di bisogni o necessità posti su cinque livelli crescenti. Il potere ha lavorato con grande successo per intrappolare la stragrande maggioranza degli esseri umani nei due livelli di base; la soddisfazione dei bisogni fisiologici (fame, sete e simili) e i bisogni di salvezza, sicurezza e protezione. Viene progressivamente estirpata la parte più nobile della natura umana, che richiede appartenenza, affetto, identificazione, e, sempre più su, stima, prestigio, successo e autorealizzazione.

All’animale bastano i bisogni alla base della piramide: per questo dall’alto hanno diffuso il modello del procione.  Lo stesso Chomsky, ben prima dell’attuale crisi, osservò che se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni, ci accorgiamo che stiamo subendo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose che ci avrebbero fatto orrore venti, trenta o quarant’anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e oggi ci disturbano solo leggermente o lasciano indifferenti gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente e inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute”.

L’accelerazione impressa da febbraio 2020, inizio dell’era virale, è impressionante. Abbiamo ancora la capacità di accorgercene e reagire o- per restare alle metafore zoologiche- la rana è bollita a puntino e non è più in grado di saltare fuori dalla pentola? Dalla risposta dipende il successo della nostra riduzione a plebe animalizzata in cattività. Da uomini a procioni.

lunedì 29 marzo 2021

IL GLOBALISMO GRACILE di Roberto Pecchioli

Il battito delle ali di una farfalla in Brasile può provocare una tromba d’aria nel Texas. Con questa frase il matematico Edward Lorenz riassunse, in una conferenza del 1979, il cosiddetto effetto farfalla, parte della più ampia teoria del caos. Molti considerano la globalizzazione una concretizzazione dell’effetto farfalla; del resto, mai come negli ultimi decenni il destino di miliardi di esseri umani è stato nelle mani di un’oligarchia – economica, industriale, finanziaria e tecnologica- interessata a instaurare un potere planetario.

Per semplificare al massimo, l’attuale globalizzazione è la realizzazione su scala mondiale delle teorie di David Ricardo, l’economista inglese del primo Ottocento, padre della teoria classica, che fu anche un abile speculatore. Per lui, ogni paese dovrebbe produrre solo le merci in cui ha un vantaggio comparativo rispetto agli altri attori economici, ossia quelle il cui costo di produzione è più basso. Una visione esclusivamente quantitativa ed economicista, oltretutto squilibrata dal lato della domanda. A parte le enormi implicazioni di natura nazionale, spirituale, politica, ambientale, le teorie del
David Ricardo (1772-1823)

brillante operatore di borsa hanno bisogno, per essere realizzate, di due presupposti decisivi. Il primo è l’esistenza di un mondo irenico, privo di contrasti, retto
esclusivamente da considerazioni economiche “razionali”, un’umanità sedata ridotta a partita doppia. L’altro elemento è la presenza di un potere unico sovra ordinato, una centrale “mondialista” in grado di decidere per tutti e imporre la sua volontà.

E’ quello che sta accadendo con il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale, ma nonostante tutto e per fortuna i bachi del sistema esistono, talvolta imprevedibili. Uno lo stiamo sperimentando con gli effetti del Covid 19, che ha trascinato al ribasso gli scambi commerciali e imposto, se non uno stop, una ridefinizione dell’agenda globalista. Un altro, il “cigno nero”, l’imprevisto che modifica piani e strategie, è il blocco del canale Suez per l’incaglio di una gigantesca nave portacontenitori da duecentomila tonnellate. Non è chiaro per quanto tempo durerà l’indisponibilità del canale. Rimettere in linea di navigazione un colosso del mare non è facile, un incubo logistico con centinaia di navi bloccate o costrette a circumnavigare l’Africa, come già stanno facendo quelle di due dei maggiori gruppi d’armamento, Maersk e Hapag Lloyd.

Suez è una delle rotte marittime più importanti del mondo: vi transita almeno il 12 per cento del commercio globale, l’8% del Gas Naturale Liquefatto e circa due milioni di barili di petrolio al giorno. Per quanto concerne le merci destinate all’Europa dalla fabbrica del mondo asiatica, il suo ruolo è assolutamente cruciale. Le stime divergono, ma ogni giorno di blocco della via d’acqua che unisce Mediterraneo e mar Rosso comporta perdite tra sei e dieci miliardi di dollari.

Dal baco della farfalla 
al "baco di sistema"

La crisi pandemica aveva abbassato i noli marittimi in calo da anni, tanto che solo i giganti dell’armamento possono permettersi di proseguire l’attività con margini così bassi. Anche il prezzo del greggio è diminuito, sino all’incredibile fase di prezzo negativo per l’eccesso di prodotto stoccato e non utilizzato. Adesso, viviamo la situazione contraria: i noli sono lievitati vertiginosamente, la circumnavigazione dell’Africa dura settimane e comporta costi altissimi. Secondo Bloomberg, Bibbia dell’informazione economica, spedire un contenitore di quaranta piedi (due “teus”, nel linguaggio del settore) dalla Cina all’Europa può costare fino a ottomila dollari, quattro, cinque volte di più che all’inizio del fatidico 2020. L’effetto è devastante e si innesta su una crisi del commercio marittimo già presente.

Questo comporta un effetto inflazionistico esterno in una fase di grave perdita del potere d’acquisto. Vi è il rischio dell’interruzione delle catene logistiche mondiali lungo la direttrice est-ovest, con effetti disastrosi sull’industria e sugli approvvigionamenti di materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Il precedente che conosciamo è la guerra dello Yom Qippur del 1973 tra Israele e i paesi arabi. Il blocco di Suez provocò la più grave crisi petrolifera della storia. In Occidente si determinò il fenomeno della stagflazione: economia ferma, elevata inflazione più disoccupazione diffusa.

Ovviamente non siamo a questo punto, ma il blocco del canale, unito alla persistenza della crisi economica da pandemia ha già prodotto un aumento del prezzo del barile di greggio in coincidenza con il crollo del PIL dei paesi esposti al coronavirus. Insomma, la globalizzazione disegnata dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) a Marrakesch (1995), completata con l’irruzione cinese (2001), è in crisi e con essa il modello, considerato definitivo - la fine della storia - del libero scambio e dell’abbattimento delle barriere doganali, con il seguito di delocalizzazioni, crisi industriale e produttiva dell’ex mondo “sviluppato”. Il globalismo non è una tigre di carta e certo è presto per pensare che avanzi la de-globalizzazione, ma il sistema è in fibrillazione.

Fin qui i fatti. Abbandoniamo i massimi sistemi e tentiamo di fornire una modesta cartografia pratica della globalizzazione “reale”. Condiamo l’insalata con limoni provenienti dal Sudamerica. Per giungere sulla nostra tavola ha viaggiato per settimane lungo l’Oceano dentro cassoni frigoriferi. Il piroscafo che lo ha trasportato è un gigante del mare lungo centinaia di metri, alto come un palazzone di città. Chi non li hai mai visti resta sbalordito. Le nuove portacontenitori devono essere in grado di trasportare tre o quattromila cassoni.

La stazza della Even Given incagliata è di duecentomila tonnellate. Per costruirla, si sarà dovuto allargare il cantiere e l’ammasso di ferraglia e motori è costato centinaia di milioni di euro. Per ammortizzare i costi, deve correre all’impazzata per il mare con soste brevissime.  Brucia migliaia di litri di carburante al giorno, i cui residui vengono sversati in mare. Per consentire il ritmo del commercio

Dal "Laissez-faire" di  Adam Smith ai limoni
che fanno il giro del mondo prima
di arrivare sulle nostre tavole

globale, si scavano sempre nuovi pozzi di petrolio e di gas naturale. Alcuni metodi di estrazione, come quello dei gas di scisto, il fracking, ovvero la frantumazione idraulica delle rocce, hanno costi ambientali drammatici e un consumo d’acqua immenso. La nostra nave non può approdare se non in porti dei quali è stato artificialmente aumentato il pescaggio. Questo comporta l’esecuzione di continui dragaggi, con immense ricadute geologiche sulle aree costiere e la difficoltà di stoccare, utilizzare o distruggere l’enorme quantità di detriti.

All’arrivo, la velocità di carico e scarico è essenziale: i limoni devono raggiungere in gran fretta il mercato, mentre migliaia di altri contenitori si ammassano per il ricarico lungo banchine sempre più grandi. Da diversi anni, i ritmi di lavoro hanno nuovamente alzato il numero di incidenti. Migliaia di vagoni ferroviari e soprattutto di camion percorrono le vie di comunicazione per consegnare rapidamente le merci, il che rende necessario moltiplicare binari e autostrade.

Dalla bellezza dei
Limoni della Costiera Amalfitana



Finalmente, i limoni arrivano sulla nostra tavola. Ma in Italia non produciamo i limoni più saporiti e famosi? Era davvero necessario mettere il mondo a ferro e fuoco per consumare agrumi provenienti dagli antipodi, il cui unico merito è di costare qualche centesimo in meno di quelli nostrani? E’ davvero la ragione economica l’unico criterio esistenziale, oppure ha senso conservare le specificità produttive di ogni paese, che sono anche potenti elementi di identità e cultura materiale?

Pensiamo al paesaggio agricolo pazientemente realizzato nei secoli, ai saperi antichi che oggi chiameremmo multidisciplinari, alla vita concreta di ogni popolazione. L’Africa, fino agli anni 60, era povera ma non conosceva la fame. Adesso, con l’imposizione delle monocolture sotto il ricatto del debito di organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, dilagano povertà ed emigrazione, mentre pochi si arricchiscono e si disperde la sapienza antica delle popolazioni.  La miseria è la peggiore consigliera, per cui gli stessi colossi del mare che hanno trasferito in Occidente limoni e manufatti, esportano nei paesi poveri i rifiuti tossici della civiltà dei consumi.

All'orrore dei rifiuti trasferiti
in Africa 

Le industrie che si fregavano le mani, all’inizio degli anni Duemila, per la possibilità di abbattere il costo del lavoro spostando le produzione, oggi sono in crisi perché i manifattori in conto terzi di ieri, a cui avevano consegnato macchinari e affidato know-how, hanno imparato rapidamente la lezione e adesso producono autonomamente. Quanta miopia nel globalismo alla Ricardo, che funziona solo in una dimensione imperiale – la Compagnia delle Indie ieri, i giganti multinazionali di oggi- concentra la ricchezza verso l’alto e rende impotenti nazioni intere, private delle conoscenze e dei mezzi per tornare a un’economia a dimensione umana.

La terapia per le varie crisi – che sono in verità momenti in cui il sistema si libera delle sue scorie a spese dei popoli – è, invariabilmente, l’assunzione in dosi più massicce dei veleni di cui abbiamo già sperimentato gli effetti. Il globalismo è l’enfatizzazione dell’assenza di limiti, così come, al contrario, un’economia legata ai veri bisogni umani, alla natura, ai suoi ritmi e alle sue possibilità di riprodurre risorse, è educazione al limite, alla custodia anziché al saccheggio del creato.

   Un esempio sono le cosiddette “terre rare”, i minerali da cui sono ricavati i materiali indispensabili al funzionamento delle tecnologie informatiche, telefoniche e di telecomunicazione, senza le quali la globalizzazione si ferma. Mentre chi estrae certi minerali in condizioni drammatiche muore in Africa e altrove, e la Cina assume una posizione pressoché monopolistica nella lavorazione, ogni giorno noi gettiamo via telefoni e computer inondando casa nostra di altri rifiuti pericolosi (radiazioni, residui tossici e non solo). Produci, consuma e crepa, letteralmente. Dobbiamo per questo tornare ai carri trainati dai buoi, comunicare con segnali di fumo o legando messaggi alle zampine dei colombi? Evidentemente no, ma la globalizzazione è lo stadio terminale di un atteggiamento “proprietario” verso la natura e l’uomo stesso.

  La ragione economica come movente unico dell’agire umano non solo è clamorosamente falsa, ma ha già determinato disastri enormi, guerre, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, indifferenza verso gli esseri viventi e la Terra, casa comune. Per calcoli errati di politica industriale, l’Unione Sovietica – capitalismo di Stato- ha praticamente prosciugato il lago di Aral, il secondo più grande del mondo. Oltre al disastro ambientale, ha distrutto l’economia e la storia di una regione grande come l’Italia settentrionale. La deforestazione selvaggia di vaste aree degli Stati Uniti dalla seconda metà dell’Ottocento fece diventare terre fertilissime “bad lands”, terre cattive dalle quali era scomparso l'humus nutritivo, steppe spazzate dai cicloni e dalle tempeste di vento che prima non le raggiungevano. Milioni di famiglie finirono in povertà e dovettero affrontare l’emigrazione: è il racconto di John Steinbeck nel romanzo Furore, portato sul grande schermo da John Ford.

Furore, romanzo

Tutto ciò dimostra che la globalizzazione senza limiti, la cieca imposizione   dell’accrescimento economico (di pochi) a danno di tutti gli altri, non funziona a medio e lungo termine. I benefici economici di breve periodo non compensano i sacrifici e i costi umani, sociali e di civiltà. Chi scrive ricorda un aneddoto della sua carriera di funzionario doganale: una mattina ricevette una telefonata allarmata dall’ISTAT di Roma, convinta che le statistiche economiche fossero state falsate. Risultava infatti un’esportazione da 500 milioni di euro, quasi mille miliardi delle vecchie lire. Nessun errore: si trattava della bolletta riepilogativa della costruzione di una enorme nave da crociera. Gli statistici, tuttavia, non avevano torto: gran parte di quell’enorme somma non era andata al cantiere e ai fornitori nazionali, ma a appaltatori e subappaltori provenienti dal mondo intero a cui era stato esternalizzato gran parte del lavoro. Chi ha frequentato o visitato i cantieri navali e quelli delle grandi opere sa di che cosa parliamo, con tutto ciò che consegue in termini di perdita di competenze e specializzazioni nazionali, sicurezza e qualità. 

Quanti viaggi, quanti passeggeri occorrono per ammortizzare un costo tanto grande? Per quanto tempo le macchine devono correre al massimo e l’apparato pubblicitario deve convincere milioni di persone a “consumare” crociere, ammazzando nel frattempo il turismo di prossimità? La ruota gira vorticosa: cantieri sempre più grandi, tempi e ritmi di produzione ristretti, altro petrolio e altro gas sversato e bruciato. Il GPL, gas di petrolio liquefatto, viaggia in gran parte attraverso tubazioni, ma il suo trasporto marittimo obbliga alla liquefazione del prodotto a oltre centonovanta gradi sotto zero, al trasporto in cisterne costosissime per la coibentazione e gli immensi apparati di conservazione della temperatura. Sulla banchina d’arrivo, ci deve essere un impianto di rigassificazione.

Maurizio Pallante introdusse la distinzione tra beni e merci. I primi sono tutto ciò che davvero serve alla vita; alcuni sono immateriali, come la convivialità, la comunità, la cultura, oltre naturalmente al cibo, l’acqua e l’aria. Le seconde rappresentano ciò che può essere compravenduto. La differenza è evidente: non a tutto può essere assegnato un prezzo, non tutto può essere oggetto di commercio. Di qui la nozione di “beni comuni”, da sottrarre agli appetiti privati. La globalizzazione reale si è appropriata della salute (Big Pharma e le lotte vergognose per farmaci e vaccini) e di beni come le risorse idriche e le reti di comunicazione. Un sistema composto di enormi cartelli privati non solo domina il mercato, ma si sottrae facilmente al pagamento delle imposte. La caratteristica della tassazione è la territorialità, ma il sistema si è fatto sfuggente, extraterritoriale, virtuale o reale secondo convenienza.

Attraverso meccanismi come quelli di trattati come il TTIP, per ora accantonato, ma che ritorna sotto le mentite spoglie di un analogo accordo con il Canada, il globalismo istituisce perfino tribunali privati, il cui scopo è sterilizzare il residuo potere degli Stati, trascinati sul banco degli imputati con durissime pene pecuniarie e gravi rappresaglie commerciali. Stalin si chiese beffardamente di quante divisioni militari disponesse il Vaticano per imporre i suoi punti di vista. Il globalismo ha armi di dissuasione finanziaria ed economica potentissime, ma, alla peggio, può contare anche sulla forza delle armi. I mondialisti sono apolidi, ma hanno una sede, gli Stati Uniti e un’influenza superiore a quella del governo federale sugli apparati industriali, riservati e militari.

La partita è finita, dunque, irrimediabilmente perduta? Non ancora e non del tutto. Vedremo quali cambiamenti porterà il dopo-Covid, quale sarà il ruolo del gigante cinese, quale impatto geopolitico e antropologico avrà il Grande Reset, che contiene alcuni elementi incompatibili con la globalizzazione sperimentata nell’ultimo ventennio. In più, la competizione mondiale potrebbe cambiare la mappa delle rotte commerciali (la Via della Seta cinese, ma anche la futuribile rotta artica se i russi riuscissero ad abbattere i costi delle navi rompighiaccio che sperimentano). Il globalismo sta subendo gli effetti della pandemia, ma sta anche utilizzando la paura per imporre un’agenda che, in parte, avrà l’effetto di ricentrare e rilocalizzare la vita e l’economia. Episodi come quello di Suez dimostrano che l’ingranaggio ha le sue falle.

Il problema è la “narrazione”. La globalizzazione fa male, rende ricchissimi i ricchi, onnipotenti i forti e inizialmente aiuta alcuni dei più miseri. Colpisce tutti gli altri: negli interessi concreti, nel modo di vivere e di essere, in tutto ciò che è cultura, costumi, principi di ciascun popolo. Ci dicono il contrario: è all’opera un immenso apparato di condizionamento e direzione. Ma dovrebbe essere chiaro che è meglio un limone a chilometro zero di una nave grande come un grattacielo che viaggia veloce per il mondo per portarci i limoni degli antipodi, insieme con prodotti in buona parte inutili destinati a una rapida, programmata, obsolescenza.

Come i criceti nella ruota

Tanto rumore per nulla, se il gigante del mare si incaglia e se un virus cambia le abitudini di una generazione. Forse la corsa del globalismo è più simile di quanto pensiamo alla ruota in cui spreca la vita il criceto in gabbia. Chissà che il moloch globale non abbia più una sana e robusta costituzione e, sia, in fin dei conti, un gracile Golia.