giovedì 21 gennaio 2021

ALLA RICERCA DELL'UOMO PERDUTO NEL "GRANDE RESET" di Mario Bozzi Sentieri

Nel glossario dell'informatica il termine "resettare" significa portare un dispositivo nelle stesse condizioni in cui si trovava quando era stato appena comprato, togliendo perciò tutti i file creati, i programmi installati e le personalizzazioni eseguite. A che cosa serve resettare un dispositivo? Serve a riportarlo allo stato funzionale, con una sorta di "ritorno alle origini". Niente di inquietante dal punto di vista tecnico, ma se dal dominio meramente informatico ci si spostasse a quello socio-culturale evidentemente qualche dubbio sorgerebbe: chi è autorizzato a "resettare" un aggregato umano? Sulla base si quali criteri? Per far riemergere quali "funzionalità"? E per riaffermare quali interessi? E a discapito di quale memoria sedimentata?

Non sembrino domande fuori contesto. Sono mesi che, a livello globale, circola l'idea del "Grande Reset", espressione con cui viene indicato un cambiamento radicale nel mondo della produzione, una volta superata l'emergenza Coronavirus. Si tratta molto di più di un auspicio o di una semplice richiesta di "riavvio" delle economie segnate dalla pandemia.

E’ l’idea che sta al centro del saggio Covid-19: the Great Reset (ISBN Agentur Schweiz, 2020, di Klaus Schwab, fondatore e attuale direttore esecutivo del Word Economic Forum (WEF) e Tierry Malleret, direttore del Global risck network, che opera all'interno del WEF, saggio nel quale la crisi sanitaria, determinata dal coronavirus, viene rappresentata come un punto di svolta nella storia mondiale: "nulla tornerà mai al senso di normalità che è stato spezzato e che prevaleva prima della crisi". Ciò che inquieta nello studio di Schwab e Malleret, non proprio due autori "qualunque", è la perentorietà degli scenari proposti giustificati dal fatto che per anni dovremo affrontare le ricadute della crisi e che molti cambiamenti saranno definitivi: la crisi - scrivono gli autori di The Great Reset -"ha provocato sconvolgimenti economici di proporzioni monumentali, e continuerà a farlo.  Nessuna azienda sarà in grado di evitare l'impatto dei cambiamenti futuri. O tutti si adatteranno all'Agenda del Great Reset, o non sopravvivranno. Milioni di aziende rischiano di scomparire, soprattutto quelle piccole. Soltanto poche saranno abbastanza forti da sopportare il disastro".

Su questi richiami "ideologici" si innesta operativamente l'ordine del giorno del prossimo incontro del WEF, previsto per il maggio 2021, nel cui ambito avverranno discussioni scientifiche, economiche e sociali che influenzeranno le decisioni politiche con cui verrà ridisegnato il modo di vivere nel mondo del post lockdown

A "dare la linea" il documento-base "Resetting the future of Word Agenda in a post Covid World", una sorta di Libro Bianco nel quale il "grande Reset" trova, in attesa di ulteriori approfondimenti, una prima, compiuta declinazione.

Ad emergere è un vero e proprio affresco della rivoluzione 4.0 realizzata attraverso la digitalizzazione forzata in grado di informare il sistema produttivo e - di conseguenza - le esistenze di quanti al "Grande Reset" dovranno ueniformarsi, attraverso un uso massiccio del telelavoro: la drastica riduzione del fattore umano nei processi produttivi; la digitalizzazione dell'istruzione e della formazione lavorativa; il massiccio ridimensionamento delle attuali competenze professionali; la ristrutturazione degli assetti organizzativi, per fare spazio ad un modello digitalizzato che garantisca il massimo controllo su tutte le attività; la mobilità forzata del lavoro (per una percentuale del 30 per cento degli occupati); la riduzione dei salari, integrati da uno "stipendio base universale", o "reddito di base"; una riduzione della forza lavoro (per circa il 28% della popolazione attiva).

Che cosa  si nasconde dietro la dura tirannia delle percentuali, della digitalizzazione, della “riconversione” tecnologica delle aziende ?

Nessuna parola traspare nei confronti di  chi dall’emergenza targata Covid19 ha subito lutti e ha pagato economicamente e socialmente sulla propria pelle i fallimenti aziendali, con la chiusura delle aziende e la disoccupazione dei dipendenti. Al fondo emerge  il disinteresse per l’uomo ed i corpi sociali in cui egli organicamente vive e cresce,  per le “ragioni” di un lavoro che non è mera produzione materiale, non è semplice mezzo di sostentamento, non è merce, il cui “prezzo” viene prodotto dal rapporto tra domanda e offerta. L’ordine civile e morale risulta – al contrario – ribaltato: tutto è produzione, strumento, mercantilismo. Lo sviluppo è quello meramente tecnologico ed economico. In questo connubio, giustificato dalla pandemia vista come “grande occasione” per rimodellare i sistemi produttivi, non sembra esserci spazio per il dubbio etico. Le grandi decisioni appaiono – al contrario -  condizionate dall’approccio algoritmico, espressione di  un determinismo scientifico disinteressato alle implicazioni politiche e gestionali delle proprie realizzazioni.

Di fronte ai processi in corso, la sfida, a meno di non accettare acriticamente il “Grande Reset”, è quella di ritrovare le ragioni di uno “sviluppo integrale”, dunque non meramente tecnologico-produttivo, nel quale al centro sia posta la crescita della persona, considerata nella sua dimensione culturale e spirituale. A partire da un senso dell’appartenenza, che proprio i lunghi mesi del lockdown hanno fatto riscoprire a livello epidermico, di aspirazione sentimentale verso la famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro, i luoghi ed i tempi del vivere tradizionale.  

Evidentemente, ben oltre i facili sentimentalismi, da ritrovare è l’ insieme dei riferimenti  valoriali e strutturali che sono  alla base del nostro vivere civile: la solidarietà e la sussidiarietà, la famiglia ed i corpi sociali intermedi, i processi d’integrazione sociale e la cultura partecipativa. Sono questi i “vaccini” in grado di  immunizzarci dai rischi di un “Grande Reset” che rischia altrimenti di assumere i tratti di  una pandemia sociale, dai risvolti inquietanti.