Le condizioni di vita dei reclusi
nel gulag erano a dir poco disumane.
Le testimonianze di Solzenicyn e di Varlam Salamov, entrambi narratori di
grande talento oltre che deportati di lungo corso, le illustrano con potente
efficacia. Il primo elemento che caratterizzava l’esistenza del recluso era la
sottoalimentazione, e quindi una fame cronica e ossessiva. Salamov, nei suoi
“Racconti di Kolyma” (la Kolima era una desolata regione di paludi e di ghiacci
della Siberia, dove l’autore rimase internato per molti anni) scrive: “Ne
avevamo tutti quanti abbastanza del vitto che distribuivano al campo, dove ogni
volta ci veniva quasi da piangere alla vista dei grandi bidoni di zinco pieni
di minestra… Eravamo pronti a piangere per la paura che la minestra fosse
troppo acquosa. E quando accadeva il miracolo che la minestra era densa, non ci
potevamo credere e, pieni di gioia, la sorbivamo piano piano. Ma anche dopo una
minestra densa, nello stomaco così riscaldato restava un dolore sordo: facevamo
la fame da troppo tempo”. Dal canto suo Solzenicyn ci illustra la devastazione
compiuta nelle coscienze dalla fame riferendo la considerazione fatta dal
detenuto incaricato di ritirare le scodelle svuotate dai suoi compagni: “Se
nelle scodelle è rimasto qualcosa, non ce la fai e finisci per leccarle”.
Ma come si finiva nel gulag? Il regime sovietico si
caratterizzò immediatamente, già dal suo stesso nascere, come un meccanismo di
repressione e persecuzione nei confronti dell’intera popolazione, giacché i
nemici di una rivoluzione che pretendeva l’annullamento di ogni individualità e
di ogni iniziativa privata nascevano e si moltiplicavano man mano che il
sistema mostrava tutta la sua distanza dalle abitudini dell’uomo e da quella
della stessa realtà della vita, insieme alla sua implacabile ferocia. Ma in epoca
staliniana, tra collettivizzazione
forzata dell’agricoltura, “piani quinquennali” per lo sviluppo accelerato
dell’industrializzazione che pretendeva ritmi di lavoro massacranti per tutti, insieme
alla smania di stanare tutti i “sabotatori” di un programma di produzione
troppo ambizioso per un paese economicamente arretrato e capace solo di
causare, sul piano economico e sociale, un peggioramento delle condizioni
dell’intera popolazione, ebbe inizio quel cupo periodo di terrore che scatenò
una vera e propria “epidemia di arresti”, come la chiama Solzenicyn, e durante
il quale “la sentinella della Rivoluzione acuì lo sguardo e, ovunque lo
dirigesse, scopriva subito un nido di sabotaggio”. In tutta la Russia si creò
un clima agghiacciante, una sorta di incubo permanente basato sul sospetto e
sulla delazione. Per molti anni nessuno poté essere sicuro di non finire, prima
o poi e senza nemmeno sapere perché, nel mirino della polizia segreta, la Ghepeù staliniana. “Fu un’aggressione
micidiale, quasi unica nella storia per dimensioni, sferrata da un governo
contro il suo popolo” prosegue Solzenicyn “e le accuse contestate a milioni di
vittime erano quasi senza eccezione completamente false. Stalin ordinò, ispirò
e organizzò di persona l’operazione. Tutte le settimane riceveva rapporti non
solo sulla produzione di acciaio e le cifre relative al raccolto, ma anche sul
numero delle vittime eliminate”. Uno dei provvedimenti più perversi emanati da
Stalin per scatenare il sospetto perfino all’interno dei nuclei familiari fu
quello della comminazione della deportazione “per mancata vigilanza
rivoluzionaria” ai familiari degli inquisiti, per cui accadeva spesso che un
componente d’una famiglia denunciasse i familiari per scongiurare la
possibilità di finire tra i sospettati, pur sapendo che i congiunti non erano
colpevoli di nulla.
Una volta nel gulag, per il deportato iniziava una
vita d’inferno. L’orario di lavoro dei forzati, dalle 12 alle 16 ore al giorno,
era massacrante all’estremo, specie se si considera l’inclemenza del clima in
regioni dove l’estate dura poco più di un mese e il resto dell’anno è un
inverno ininterrotto con temperature oscillanti dai meno 35 ai meno 60 gradi.
Ai detenuti, sempre insufficientemente coperti, non si concedeva nulla, né
tutela contro il freddo spaventoso né sconti sul lavoro. Il detenuto era
obbligato a produrre la misura giornaliera di lavoro prestabilita dai
carcerieri. Se la misura non era raggiunta
per più giorni, il forzato, come racconta Salamov, veniva condotto nottetempo
nella foresta, dalla quale i dormienti sentivano provenire l’eco d’uno sparo.
Il detenuto trascinato nella foresta, allorché si rendeva conto di ciò che l’aspettava,
“rimpiangeva di aver lavorato, di aver tanto patito per niente anche quel
giorno, quel suo ultimo giorno di vita”. L’eliminazione dei deportati non più
sufficientemente produttivi era frequentissima. Il colpo alla nuca a cui allude
Salamov si poteva ancora considerare un atto di misericordia; più spesso il
detenuto veniva chiuso in gabbia, portato lontano dalle baracche e lasciato
morire atrocemente nel gelo della notte. La mortalità nei campi, stando ai
resoconti stilati dalla Ghepeù, fu
del 10 per cento nel 1932 e del 20 nel 1938, ma è probabile che le percentuali
reali fossero molto più elevate. I gulag
più duri, in particolare quelli minerari, erano veri e propri campi di
sterminio, nei quali ben pochi sopravvivevano fino alla fine della detenzione.
I sovietici non disponevano di camere a gas o di forni crematori come nei campi nazisti, ma forse solo perché
la combinazione risultante dal clima insopportabile, dal lavoro estenuante,
dalla denutrizione cronica, dalla mancanza di igiene, dalle umiliazioni, dalle
percosse e dalle malattie che derivavano dalla somma di questi fattori (come lo
scorbuto, la pellagra, la tubercolosi, il congelamento degli arti e altro),
costituiva una miscela sufficientemente letale per garantire una rapida
eliminazione degli elementi “inutili” o “asociali”. D’altronde la consegna per
tutti i dirigenti dei campi era che dal forzato bisognava prendere tutto quello
che poteva dare fin che le forze lo reggevano; dopo non serviva più. Ma, a
questo proposito, sentiamo ancora una volta Salamov: “Nei lager, perché un uomo
giovane e in buona salute – che ha iniziato la sua carriera sul fronte di
taglio di un giacimento aurifero, in inverno, all’aria aperta – si trasformi in
dochodjaga, un morto che cammina,
bastano da venti a trenta giorni di lavoro, con orari giornalieri di sedici
ore, senza giorni di riposo, con una fame costante, gli abiti a brandelli e le
notti passate sotto una tenda catramata piena di buchi mentre all’esterno la
temperatura scende a meno di sessanta gradi, con i pestaggi inferti dai
“caporali”, dai capigruppo scelti tra i malavitosi e dai soldati della scorta…
Le squadre che aprono la stagione aurifera e portano il nome del loro
caposquadra, alla fine del periodo di scavo non hanno più neanche uno degli
uomini presenti inizialmente, a parte il caposquadra stesso, il “piantone”
responsabile della baracca e qualche amico personale del caposquadra. Gli altri
elementi cambiano tutti, e più volte nel corso di una stagione. Il giacimento
aurifero getta senza soste le scorie umane della produzione negli ospedali e
nelle fosse comuni”
Molte delle realizzazioni
“titaniche” portate a termine dal regime sovietico (la definizione era dello
stesso Stalin) furono in gran parte dovute al sacrificio di quei “morti che
camminavano”, schiavi privati d’ogni diritto e brutalmente trattati: queste
furono l’apertura dei canali Mosca-Volga, Volga-Don e quello tra il Mar Baltico
e il Mar Bianco, la centrale idroelettrica
di Kujbeysev, la diga sul Dnepr, il complesso chimico di Berezniki e il
complesso industriale di Magnitogorsk, nonché i nuovi insediamenti urbani
siberiani di Komsomolsk, Vorkuta, Noril’s e Magadan. Imprese spesso grandiose,
come fu, indubbiamente, la diga sul Dnepr, ma in qualche caso, come il canale
del Mar Baltico, rivelatisi veri e propri errori, che si tradussero
semplicemente nello sperpero delle cospicue riserve investite per realizzarlo.
Infatti, il canale, una volta costruito, risultò inutilizzabile: solo le
chiatte a fondo piatto riuscivano a percorrerlo, mentre nelle intenzioni dei
suoi promotori avrebbe dovuto consentire alla flotta del Baltico di collegarsi
a quella settentrionale. Quasi sempre, in ogni modo, tali imprese “titaniche”
assorbirono una parte troppo ingente delle risorse nazionale, e per risorse
intendiamo qui solo quelle finanziarie perché lo spreco di quelle umane fu
spaventoso. Per usare l’espressione di
un esponente della Ghepeù, i forzati addetti alla realizzazione di questi
progetti, “morivano come mosche”; ma si provvedeva a sostituirli immediatamente
con altri forzati, che non difettavano mai.