giovedì 21 gennaio 2021

ARTE POVERA E ALTRE IMPOSTURE di Dionisio di Francescantonio

La solitudine e la frustrazione sono stati inevitabili per il pittore o scultore rimasto fedele al figurativismo nel periodo della dittatura informale, concettuale, pop o dadaista che ci ha afflitto nei decenni scorsi. Fino a ieri non era nemmeno consentito polemizzare con la frattura che l’avvento dello sperimentalismo obbligato ha provocato con la tradizione dell’arte figurativa e con quel bagaglio inestimabile di tecniche e di esempi che essa ci aveva portato in dote. Da qualche tempo, però, qualcosa è cambiato. All’estero il mutamento si registra già da un pezzo, ma anche in Italia qualcuno ha cominciato a sostenere che aver azzerato il rapporto con la nostra grande tradizione è stato uno sbaglio e che il recupero della manualità del passato e il ritorno al figurativo sarebbe auspicabile e opportuno. Le acque, insomma, si sono mosse e un nuovo flusso ha cominciato a scorrere nello stagno morto dell’arte contemporanea.

Non che questo abbia prodotto una reazione a trecentosessanta gradi e l’abbandono generalizzato delle brutte abitudini, ma oggi, almeno, il pubblico più avveduto comincia a rendersi conto che lo sperimentalismo a oltranza imposto da una modernità intesa come rottura totale col passato si è rivelato un’avventura presuntuosa e velleitaria, priva di veri sbocchi creativi e per lo più finita nelle secche del nulla, del futile e dell’inutile, per non dire del brutto, del deprimente o addirittura del ripugnante. Tuttavia scalzare certe posizioni ormai acquisite non è facile. Complice la cecità, la tracotanza, il gusto di rivoltarsi nell’insulso e nella bruttura di certa critica e più in generale di quella fauna umana che ruota e prospera attorno al mondo dell’arte (soprattutto organizzatori di eventi artistici e amministratori pubblici e direttori di musei), le cosiddette superstar dell’arte contemporanea continuano ad ammannirci i loro oggetti astrusi, incomprensibili, talvolta ignobili, più spesso insignificanti ma sempre insopportabili. Malauguratamente quella parte di pubblico che prova insofferenza o disgusto davanti a questa paccottiglia insulsa è ancora in gran parte in condizione di inferiority complex di fronte ai saputelli di professione, cioè quei critici d’arte cresciuti nell’idea di un’arte intesa come negazione del bello e del significativo, così si trincera dietro il facile paravento dell’incompetenza e dell’incapacità a capire e giudicare l’arte moderna. Come sempre, è il coraggio che manca al pubblico (quell’ingrediente indispensabile che ti impedisce di accettare supinamente d’esser preso in giro e di subire per buono e per vero ciò che è cattivo e fasullo) e questa mancanza di coraggio fa sì che l’equivoco vada avanti e che certe amministrazioni pubbliche continuino a proporre allestimenti di oggetti sgradevoli e antiestetici, per di più a costi spropositati (bisognerebbe, se non altro, indignarsi e protestare almeno di fronte a questo spreco, perché si tratta sempre di denaro pubblico, ossia di soldi sottratti alle tasse che noi paghiamo). Prendiamo, tanto per fare un esempio, la così detta Arte Povera, quel surrogato del movimento Dada scoperto, o meglio inventato da Germano Celant, uno che proviene da Genova, città dove il peggio, almeno a partire dalla metà degli anni Settanta, sembra aver trovato un terreno privilegiato. In tempi non lontani questo signore ha concepito l’ennesima mostra di Arte Povera da tenersi in più città, presso sale di musei, di banche o di altri enti pubblici, e naturalmente a spese del contribuente. Ebbene, in che consiste questa “arte povera”? Si tratta di stracci ammonticchiati, bottigliette allineate, lastre d’acciaio o altri oggetti non più utili adunati in vario modo nello spazio ad essi destinato. E questo come si può chiamare se non come


una marchiana presa in giro? Tanto più che perfino il suo profeta, Celant, dichiara candidamente che questa non è arte, poiché l’arte “è finita… e basta con questa lagna…” E chiarisce ancor meglio il significato dell’arte povera allorché la definisce come “un monumento che tende alla decultura, alla repressione, al primario e al represso, allo stato prelogico e preiconografico, al comportamento elementare e spontaneo”. Siamo ad un passo dal ritorno nell’utero materno, insomma, quello che precede appena la condizione del succhiare, riposarsi nell’ebetudine o piangere per la fame e per altre molestie fisiche. 

C’è poi la così detta arte che, non avendo nulla da dire, ricorre allo choc, allo scandalo, alla trovatina provocatrice rivolta quasi sempre, guarda caso, alla religione cristiana (mai contro la musulmana, ben più intollerante e minacciosa), come la “rana crocefissa” del tedesco Martin Kippenberger, paladino della blasfemia insieme all’italiano Maurizio Cattelan, un vero e proprio guru della provocazione, costui, autore d’una figura riproducente Papa Wojtyla abbattuto da
un meteorite e d’un cavallo morto sul quale si erge la scritta “Inri”. Per non parlare delle invenzioni disgustose di Takeshi Murakami, un giapponese che allinea gigantesche figure femminili in stile manga che sprizzano latte dai seni, o di Tracey Emin, capace di esporre un letto sfatto con

lenzuola sporche su cui sparge preservativi e assorbenti usati. Questo è, insomma (e bisogna un po’ cominciare a dircelo con chiarezza), il risultato di tanti decenni di impostura e provocazione di certa avanguardia artistica. Tristan Tzara, intorno al 1915, all’inizio del dadaismo, era perfettamente consapevole del valore dei prodotti di questo movimento, nato unicamente per provocare e prendere in giro: “Si può parlare ancora di giudizio a proposito di produzioni gettate, per così dire, sulla pubblica piazza come rifiuti naturali sprovvisti di qualsiasi pretesa?” Marcel Duchamp è ancora più esplicito e strafottente: “Ho buttato loro in faccia in un gesto di sfida lo scolabottiglie e l’orinatoio e ora li venerano per la loro bellezza…” 

Vogliamo continuare così? Vogliamo che si continuino a promuovere queste esposizioni farsa ad uso e consumo d’una ristretta casta di curatori e critici con contorno di collezionisti privi di gusto e di intelligenza, desiderosi solo di buttar via denaro investendo nel brutto e nel fasullo? Esposizioni, va da sé, rispetto alle quali l’adesione del pubblico è superflua (anche se poi la spesa in pubblicità e promozione non è mai trascurabile), la qualità è guardata con sospetto e la serietà considerata ignominia.