venerdì 26 novembre 2021
martedì 10 agosto 2021
CE LA FAREMO AD USCIRE DALLA CRISI? di Rino Tartaglino
Una scena consueta negli anni Sessanta |
Il conflitto familiare: un segno del nostro tempo |
debito pubblico è conseguenza del fatto che la banca centrale non finanzia il debito pubblico e mette l’Italia alla mercé della speculazione. Così la distruzione della morale nella società ci è stata imposta con la storiella dei diritti. Per non parlare dell’invasione dei migranti che dobbiamo subire per non essere accusati di razzismo e xenofobia. Adesso che sappiamo di aver sbagliato quasi tutto ci domandiamo: "chi comanda in Italia?". Noi andiamo a votare, eleggiamo dei candidati e poi ci rendiamo conto che le decisioni più importanti vengono dall’Ue che a sua volta fa gli interessi dell’alta finanza mondialista. Quando un partito si definisce atlantista ed europeista vuol dire che accetta questa situazione di potere. Tutti i partiti escluso Lega e Fratelli d’Italia sono europeisti a quel modo, protestano un po’ quando da Bruxelles arrivano disposizioni contrarie ai nostri interessi, ma poi accettano. Lega e FdI e quel che resta di Forza Italia riusciranno ad acquisire peso in Italia ed in Europa tanto da cambiare questa Ue? Ci auguriamo riescano nel loro intento; ma dubitiamo abbiano successo. I loro avversari e i signori di Wall Street faranno di tutto per impedirlo. Il momentaneo governo Draghi anche se avrà qualche effetto positivo, le grandi linee della politica economica sono già tracciate: sistema economico ecosostenibile, digitalizzazione (Grande Reset) e austerità a partire dal prossimo anno. Intanto di ecologico abbiamo visto solo l’aumento delle bollette luce e gas. Finiranno per chiudere certe aziende e ne sorgeranno altre meno numerose. L’austerità porterà all’aumento delle imposte e ad un impoverimento. L’immigrazione continuerà a pesare perché l’Ue non è interessata ad impedirla e la mafia di Wall Street che pensa al Nuovo Ordine Mondiale l’immigrazione in Europa serve a far perdere l’identità dei popoli per renderli più controllabili. La corruzione della società continuerà con l’invenzione di nuovi diritti. Anche questo aspetto serve come strumento di potere. Un popolo di zombi a detta dei mafiosi di Wall Street è più manovrabile. L’ideologia mondialista è così penetrante nella società che è in grado di condizionare tutto. . Tutti i mezzi di informazione sono al servizio di questo potere. Abbiamo visto come la conduzione dei governi nella lotta alla pandemia sia stata come volevano le imprese farmaceutiche tutto incentrata sui vaccini lasciando i pazienti senza cure. Molte pubblicità di prodotti di uso corrente si avvalgono di scenette gay. Gli sportivi devono inginocchiarsi per evitare ricatti. Dal punto di vista economico una parte consistente del nostro debito è in mano alla speculazione che può in qualsiasi momento mettere l’Italia in difficoltà. Per tutti questi motivi e lo stato avanzato di condizionamento sociale da parte dell’élite mondialista, le prospettive future non sono rosee. Mettere in ginocchio l’Italia sarebbe un importante passo avanti verso il Nuovo Ordine Mondiale.
martedì 3 agosto 2021
LA CANCELLAZIONE DELLA MEMORIA di Roberto Pecchioli
Se avessimo la capacità di elencare e descrivere tutte le modalità di decostruzione dell’umano in atto nella post modernità, dovremmo compilare un’enciclopedia senza fine. Il laboratorio per la distruzione, come lo chiamava l’antropologa Ida Magli, l’officina di Vulcano anti umana e transumana, lavora h.24, non va mai in ferie e si pone ogni giorno nuovi obiettivi, vincendo le sue ignobili battaglie per assenza di contraddittorio nell’Occidente in bilico tra il tramonto e la notte.
che chi ci espropria della memoria, chi atrofizza questo straordinario strumento di apprendimento, vita e conoscenza, sta agendo per distruggere una delle principali facoltà umane, cancellare una parte della nostra umanità e della nostra individualità. Abolire, manipolare, diminuire la memoria è dunque un crimine contro l’umanità e l’integrità della persona. Già Cicerone osservava che la “memoria diminuisce se non la tieni in esercizio”.
Manuel Castells, ministro dell'Università del governo spagnolo |
Dalla biblioteca.... |
diventa storia, deposito comune, cultura nel senso più ampio del termine. Contrordine: bastano un computer o uno smartphone e la perizia nella ricerca. L'era digitale diventa – banalmente – quella delle dita che battono sulla tastiera, guidate dalla memoria a breve termine, orientate dalla nuova Bibbia, il motore di ricerca che sceglie per noi, nasconde ciò che il Dominio disapprova o vuole celare e impone una patina di conoscenza immediata, superficiale e preordinata. La memoria a lungo termine diventa il deposito dell’obsoleto, dell’inutile, un cestino dei rifiuti da svuotare ogni giorno e chiudere per cessata attività. E’ l’impero di Google e della pagina iniziale di ogni ricerca, a cui si attiene oltre il novanta per cento degli utenti.
...allo smartphone |
Esercitare la memoria, trattenere le “informazioni”, il cui destino è la rapida obsolescenza, sarebbe quindi un futile esercizio animale – da pappagallo- e la sapienza consisterebbe non nel padroneggiare le materie, ma nella perizia nel rintracciare i dati. Oltretutto, le ricerche su Internet, per avere un senso, devono essere sostenute da qualcosa che si sa già, che si è metabolizzato e inserito, con tanto di giudizio e spesso con fatica, nella cartella interiore che contiene tutti i file della MLT. Altro che pappagalli e merli parlanti. La memoria è il salvadanaio dello spirito, va custodita, alimentata, trattata con amorevole cura. Viene in mente un intellettuale comunista, Dario Fo, che la pensava assai diversamente da Castells. Nella rigida semplificazione marxista, scrisse che il padrone conosce mille parole e l’operaio trecento: perciò è il padrone. L’ignoranza va quindi contrastata con la conoscenza, e la cultura – di cui la memoria è un elemento decisivo- è l’unico valido ascensore sociale e la sola possibilità di vivere da uomini e non da automi servili. Una volta di più, la diabolica alleanza tra i padroni del mondo – che possiedono i canali di diffusione culturale e la tecnologia informatica che li amplifica- e l’intellettualità post marxista è la tenaglia che schiaccia popoli e individui. Il doppio binario dei decostruttori desta indignazione. Per la maggioranza, la memoria è e smantellata attraverso un’istruzione sempre più scadente, tra follie come la didattica a distanza (DAD) e scuole trasformate in fabbriche di diplomi e lauree. Gli altri, i predestinati a dirigere la società per censo, cooptazione e tradizione familiare, ricevono un’istruzione di ben altro livello in cui le materie abolite o sconsigliate alla massa (storia, geografia, filosofia, diritto, persino l’eloquenza) continuano a far parte del bagaglio intellettuale. La memoria non è un inutile orpello, ma il primo strumento della conoscenza. Abolire la memoria a favore dell’informazione spicciola, ridotta a “abstract”, l’estratto degli apparati informatici, è un’operazione profondamente classista, che riproduce e rafforza il potere di chi è padrone di tutto. Se ci esprimessimo con il linguaggio dei banditori della Memoria Informatica a Brevissimo Termine, diremmo che è “di destra”. Sapere è potere: inevitabilmente ha a che fare con lo studio, la fatica, la costanza, la memoria. Conoscete un fisico o un matematico che – con grande sforzo- non abbia memorizzato formule e teoremi, compresi in genere solo dopo averli faticosamente ritenuti nella memoria, interiorizzati? Si possono imparare le lingue con una passeggiata virtuale su Internet, oppure occorre la lenta elaborazione mnemonica delle regole grammaticali, sintattiche e lessicali? Da tempo si aborre lo studio a memoria di poesie e o passi letterari: doppio errore. Da un lato, si impedisce alla mente di allargarsi attraverso la fissazione nella MLT (che è sempre elaborazione individuale, non semplice processo automatizzato!) di eccellenze culturali, dall’altro si impedisce un esercizio che aumenta le nostre possibilità: la funzione crea l’organo. Il musicista, l’artista, ma anche l’artigiano e l’operaio, acquisiscono le loro abilità- manuali o intellettuali- attraverso un processo in cui la memoria ha un posto determinante, fino a diventare qualcosa di già dato, una sorta di automatismo figlio dell’accumulo di saperi, gesti, meccanismi introiettati nel tempo, fissati nella memoria. Il fondatore dell’antropologia filosofica Arnold Gehlen parlò di “esonero”, ovvero della capacità dell’uomo di liberarsi dall’ eccesso pulsionale attraverso la cultura L’esonero è l’onere da cui la nostra specie viene liberata acquisendo modalità di azione che selezionano che cosa fare e come farlo. Un agire esonerato diventa sicuro, stabilizzato, quasi istintivo; gli atti complessi vengono svolti pressoché in automatico- pensiamo alla guida di un automobilista esperto - permettendo l'impiego delle energie per scopi superiori, ad esempio guidare e insieme conversare con i compagni di viaggio. Senza memoria, non c’è esonero, ossia l’homo sapiens cessa progressivamente di essere tale. La nostra convinzione è che quello sia l’obiettivo finale del Dominio: di decostruzione in decostruzione, l’uomo diventa a sua volta meccanismo, attivato da remoto in base a riflessi condizionati e all’apprendimento di gesti strumentali eterodiretti. L’insegnante, il maestro di ieri, diventa un semplice istruttore dei comportamenti voluti dall’oligarchia, come utilizzare lo schermo e la tastiera degli apparati informatici per compiere qualsiasi atto, prendere ogni decisione, elaborare conoscenze da dimenticare in fretta in omaggio all’obsolescenza cara a pessimi maestri. La natura delle istruzioni impartite è lo specchio della volontà del potere teso a cambiare l’uomo attraverso la sua “denaturazione”, ossia l’allontanamento dalla natura e dalle facoltà che gli ha attribuito. Una è la memoria selettiva, che permette di conoscere, ricordare, compiere scelte autonome, possedere criteri di giudizio. Senza, siamo ostaggi di un falso sapere filtrato dai padroni della tecnologia, coloro che ordinano gli algoritmi attraverso i quali la rete (chi la controlla) distilla le conoscenze ammesse, le idee giuste e quelle proibite. Non c’è pensiero critico senza selezione dei contenuti e tale selezione è impossibile senza memoria. Fu straordinaria l’intuizione di George Orwell sul totalitarismo che impedisce il dissenso abolendo il linguaggio attraverso cui esso si esprime. Fare memoria significa ricordare eventi storici, trasmettere principi, fatti, idee. Anche l’arte è memoria: chiunque abbia uno spirito non addormentato avverte la differenza tra una cattedrale gotica e la triste chiesa- cubo dell’architetto alla moda Fuksas a Foligno. Quella simil-chiesa non sarebbe stata costruita se avessimo conservato la memoria dello spirito, l’idea che un edificio assolve una funzione e suscita dei sentimenti. Perdere la memoria significa dover accettare tutto e il suo contrario in nome dell’oggi e sulla base della volontà insindacabile dei padroni che l’hanno espropriata. Senza memoria, l’uomo è una tabula rasa, una lavagna che cancella mentre vi si scrive. Non esisterebbe la tradizione orale: nessuno ci avrebbe trasmesso Omero e tutte le culture avrebbero smarrito i loro fondamenti. Ecco perché l’operazione di asportazione della memoria – spacciata come cultura rinnovata in linea con i tempi – è un colossale imbroglio, un furto terribile a danno di tutti e di ciascuno, dei viventi e di chi nascerà in un mondo snaturato e smemorato. Il nostro destino non è Alexa, o Siri, suadenti voci virtuali, assistenti informatici che sostituiscono la vita reale. Sgomenta la plasticità, la docilità dell’uomo-gregge al nuovo destino. Ma già, anche Dante è fuori moda e nessuno ricorda più a memoria (“a pappagallo”) “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. La più grande creazione del pensiero astratto, diventata base pratica di ogni scienza, è la matematica. Senza la memoria, senza l’applicazione di geniali visionari non avremmo il numero, il calcolo, architrave della capacità di dominio sulla natura di cui andiamo tanto fieri. Ma anche l’esercizio del calcolo matematico è obsoleto: in pochi attimi, i problemi sono risolti in rete dall’apposito programma algoritmico, e la tragedia è dimenticare che ciò è possibile poiché qualcuno non ha “processato dati”, ma li ha immaginati, inventati, sottoposti a verifica, mandati a memoria e offerti al prossimo come patrimonio comune. Il signorino ignorante è soddisfatto di sé perché sa maneggiare alcuni apparati, ma ignora i fondamenti, le leggi, l’enorme accumulo di memoria, conoscenza, trasmissione che ne hanno reso possibile l’esistenza. La battaglia “per” la memoria è dunque una lotta tesa a conservare le capacità, le scintille divine che hanno reso homo sapiens sapiens la scimmia nuda e quasi priva di dotazione istintuale. Il declino della memoria, la sua sostituzione con il dispositivo rappresenta altresì la negazione della scienza e la vittoria della dipendenza dalla tecnica. Per ciascun uomo, la memoria è la miniera da cui scegliere e poi estrarre conoscenze e idee nei vari momenti della vita. La letteratura distopica ha prefigurato il raccapricciante mondo privato della memoria. Fahrenheit 451 descrive un tempo in cui compito dei pompieri è di bruciare i libri, il deposito di tutto ciò che è stato detto, fatto, vissuto, pensato. Il ribelle, Guy Montag, è colui che tradisce il suo ufficio e conserva, nei libri, la memoria. Nel Dio Thoth, Massimo Fini prefigura un mondo in cui esiste solo ciò che è diffuso dall’altoparlante del potere e nella biblioteca universale non si trova più l’Amleto di Shakespeare, ma solo riassunti o brevi citazioni, nascoste tra miliardi di dati inutili: la distopia della riduzione, il Bignami universale che nasconde e non spiega, il simulacro della memoria. Per lo psicologo cognitivo Alan Baddeley, studioso della memoria, essa è “la capacità di immagazzinare informazione e di avere accesso ad essa. Senza la memoria saremmo incapaci di vedere, udire e pensare. Non avremmo un linguaggio per esprimere la nostra situazione e di fatto neppure un senso della nostra identità personale. “Questa è la posta in palio, questo ci stanno rubando. Pure, accanto alla memoria, sussiste nell’uomo una spinta naturale alla selettività del ricordo, una necessità dell’oblio di ciò che diventa zavorra. Eugenio Montale chiedeva di dare tempo alla memoria per compiere il suo primo e più impellente ufficio: dimenticare. Per Jorge Luis Borges, la memoria, oltre un certo limite, è un dramma, un aspetto del labirinto della vita. Nel libro Finzioni vi è il racconto Funes o della memoria, la storia di un uomo la cui prodigiosa memoria gli permette di cogliere e rammentare ogni dettaglio di tutto ciò che lo circonda. Funes rammenta ogni cosa, ma non è in grado di formulare idee generali: registra solo particolari e non concetti compiuti. Questa condizione lo conduce all’isolamento, all’incomunicabilità e alla morte. “Sospetto che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati”. E’ questa la grandezza dell’uomo: scegliere, accogliere e tralasciare, ricordare e dimenticare. Se la nostra condizione è il labirinto, l’esito di un uomo smemorato, dipendente dagli apparati e dall’attimo, è la mancanza di pensiero. Uguale e contrario al povero Ireneo Funes, “il memorioso”.
venerdì 4 giugno 2021
L'ANNO DEL PROCIONE, L'ERA DEL CONIGLIO di Roberto Pecchioli
In Cina, ogni anno è denominato simbolicamente attraverso gli animali. Il 2020 è stato l’anno del topo (il pipistrello di Wuhan altro non è che un topo con le ali…) mentre quello corrente è l’anno del bufalo. In Europa il 2020, anno primo dell‘era pandemica, è stato l’anno del procione. In una grande nazione europea, la Germania, il governo ha diffuso un video ufficiale relativo al Covid 19, diventato popolare anche nel resto d’Europa, ambientato in un lontano futuro, in cui la voce narrante è di un vecchio che racconta un’esperienza giovanile in forma di apologo.
“Era
l’inverno del 2020 quando tutti gli occhi del paese si rivolsero verso di noi.
Avevo appena compiuto ventidue anni, studiavo ingegneria a Chemnitz quando
arrivò la seconda ondata. Ventidue anni, l’età in cui vuoi far festa, studiare,
conoscere nuove persone e tutto il resto. Andare a bere con gli amici. Il fato
però aveva un piano diverso per noi. Un pericolo invisibile minacciava tutto
ciò in cui credevamo. Improvvisamente, il destino del paese fu nelle nostre
mani. Radunammo tutto il nostro coraggio e facemmo quello che ci si aspettava
da noi, l’unica cosa giusta da fare: niente. Assolutamente niente. Fummo pigri
come procioni. Notte e giorno abbiamo tenuto le chiappe a casa. È così che
abbiamo combattuto contro la diffusione del virus. Il divano era il nostro
fronte, la pazienza era la nostra arma. Sai, ogni tanto sorrido quando ripenso
a quel periodo. Quello fu il nostro destino. Così diventammo eroi. Nell’inverno
del coronavirus del 2020.”
Pigri come procioni, gli europei terminali diventano per questo “eroi”. Viene voglia di dare ragione a un altro tedesco, il drammaturgo comunista Bertolt Brecht: beato il popolo che non ha bisogno di eroi. Beninteso, se sono di questo tipo. Oblomov sul trono, l’immobilità come epopea, l’obbedienza come sfondo: “facemmo quello che ci si aspettava da noi “. Per riuscirci, dovettero ricorrere a “tutto il loro coraggio”. Tempo di procioni e di conigli, la paura eretta a virtù e la sequela dei padroni del gregge innalzata a modello di comportamento. Difficile immaginare un inno alla decadenza, alla mediocrità e al conformismo più potente del pistolotto “educativo” dell’ex ragazzo del 2020. Enorme il disprezzo diffuso per l’attività, il lavoro, l’impegno.
Il procione è l’eroe dei nostri giorni per la sua pigrizia, come il coniglio, con il suo timore, il nascondimento e l’indole imbelle diventa l’immagine di un’era che fa della paura, della pura sopravvivenza, un ideale positivo, addirittura un modello proposto ai giovani. E’ una malattia in più, non solo un effetto collaterale del Coronavirus: l’uomo-procione si sta ammalando di accidia, il settimo peccato capitale, il virus è sparso dall’alto, gli untori sono al potere. Il vero superlavoro non sarà dei virologi, ma degli psicoterapeuti alle prese con generazioni depresse, impaurite, confuse. Si resta esterrefatti per la coincidenza dei nuovi (dis)valori capovolti con la neolingua di Orwell: oggi la paura è coraggio, ieri “la verità è menzogna, l’ignoranza è forza, la guerra è pace”.
L’origine
della nostra civiltà è nel racconto del Genesi: Adamo, il primo ribelle, deve
procurarsi da vivere col sudore della fronte. Non si
tratta di un castigo, ma di una condizione antropologica. A un’attività che
sottopone a sforzi, pericoli ed impegno corrisponde un determinato sviluppo
cerebrale e morale. Allo stare sul divano ne corrisponde un altro, ben più
misero. Stiamo perdendo per sempre una generazione istupidita dallo stop
generalizzato, costretta sul divano davanti a uno schermo, passiva, mero recettore
di immagini, contenuti e idee elaborate altrove, privata della scuola e del
contatto con i coetanei – l’indispensabile “gruppo dei pari “- e con
l’educazione dei maestri. Più ignoranti, meno intelligenti e creativi, timorosi
della scoperta e dell’esperienza, diventati rischi da evitare. Giovani bloccati
e chiusi: colpevoli se affollano le strade della “movida” (che significa
esattamente movimento); definiti di volta in volta intollerabili, irrazionali,
ingiustificabili i loro “assembramenti” che non sono altro che volontà di vivere.
Spaventa la povertà del traguardo imposto. Rinserrato in casa, connesso a pc, smartphone
e televisione, l’uomo – e in particolare il giovane – è invitato non avere
altri obiettivi oltre alla tutela della salute. Il senso della vita diventa allontanare
la morte, l’indumento indispensabile è la maglia di lana.
Quali imprese, quali progetti,
immaginerà la generazione dei procioni, delle pecore e dei conigli? La
grandezza degli uomini e dei popoli sta nell’esempio, nell’adozione di modelli elevati
da imitare e superare. Se il modello è Oblomov l’immobile, il destino è
segnato, virus o non virus. C’è di più: è la prima volta il governo di una
grande nazione europea definisce coraggio il blocco, l’inazione, l’attesa passiva
di qualcosa di salvifico che sblocca la situazione. Tutto viene da “fuori”,
anche la fine del virus, per scomparsa, esaurimento o immunizzazione. Noi
aspettiamo, rinchiusi ma connessi. La relazione con l’esterno è la voce del
potere, il fischio del pastore, degli impresari del terrore. Ricordate il
vecchio logo di una casa discografica, il cane felice accanto a un grammofono
dalla cui tromba esce la voce del padrone?
Che uomini e donne si formeranno al
tempo del procione? Certo nessun eroe, pochi dissenzienti e ancor meno personalità
libere di cuore e di animo. La società che stanno creando – con la complicità
di un’epidemia che sempre più appare lo strumento gradito, se non provocato, di
un preciso progetto di ingegneria sociale – impedirà, almeno a medio termine,
qualsiasi cambio di direzione rispetto al cammino tracciato dall’alto, chiamato
Agenda 2030. Ogni popolo, affermò Joseph de Maistre, ha il governo che merita. Nessun vittimismo, nessun
destino cinico e baro. Nessun procione è mai andato al potere e ha cambiato il
mondo, il coniglio non organizza ribellioni.
Privato
di trascendenza e di destino, cancellata l’immaginazione, l’uomo-procione perde
la sua identità e la sovranità su se stesso. La parola d’ordine è accettare
tutto stando immobili, obbedire con lo stesso zelo con cui ieri si aborriva il divieto.
Quanto all’immaginazione al potere, chiusa per cessata attività: che cosa può
immaginare il procione, se non attendere il bollettino terroristico quotidiano
del virus, rabbrividire, chiudere a doppia mandata finestre e chiamare coraggio
la rinuncia a vivere? La parola d’ordine è accettare tutto senza avere in
cambio nulla che non sia la speranza della sopravvivenza biologica. Stanno
plasmando una generazione di zombie
impauriti, ma dimenticano che l’anima umana possiede una volontà e una
scintilla divina. Per quanto legioni di pompieri si impegnino a spegnerlo, un fuoco
tenace coverà anche sotto la cenere della tana dei procioni.
La
vita è un continuo rischio, una prova da superare ogni momento. Non si può
evitare il rischio così come non è possibile scansare indefinitamente il
dolore, altro incubo della società analgesica. La rimozione del pericolo, dell’incognito,
del dolore e della morte per costruire un Eldorado di
piacere, sonnolenza e tranquillità restano sogni impossibili: l’immunità che
esigiamo è immaginaria. Anche il procione, ignaro eroe dei giorni nostri, alla
fine muore. La vita non è una malattia: trascorrerla nel liquido amniotico, a
debita distanza dal prossimo, non ci renderà immortali. E’ sicuramente troppo
riuscire a far sì che “ciò su cui non possiamo nulla, nulla possa su di noi”, arduo
programma esistenziale a cui esortava Julius Evola, ma è vero quanto fa dire
Shakespeare a Giulio Cesare: chi ha paura muore mille volte, chi ha coraggio
una sola.
Questa
incredibile sottocultura della bambagia e della protezione ad ogni costo ha
trovato la sua fata turchina, tedesca come i teorici dell’uomo-procione: è la presidente della Commissione Europea, Ursula Von
der Leyen, che distilla ovvietà con il tono pensoso di chi enuncia verità
ultime e arcane. Stiamo entrando in un’era delle pandemie e anche dopo il Covid
il rischio resta, ecco il geniale apoftegma di Ursula, matrigna e padrona
premurosa degli europei regrediti a procioni. Malattie e pandemie ci sono
sempre state, è ragionevole immaginare che sì, il rischio sanitario resterà un compagno
inseparabile della vicenda umana. Sempre ci fu la paura, ma non diventò mai
scenario alimentato dal potere. Oggi domina chi riesce a terrorizzare le masse
sino a istituire una sorta di potere delle fobie, “fobocrazia”. I virus – ben
più letali del Covid 19- hanno
accompagnato ogni epoca, ma è la prima volta che la stravolgono nella pratica e
nell’essenza, pur avendo oggi l’umanità strumenti più
potenti per combatterli. La signora Von der Leyen- maschera da fata turchina e condotta da Crudelia
Demon- semina panico calcolato ai procioni di ogni età seduti in poltrona per
decreto.
Se “il rischio
resta”, vaccino o no, immunizzazione di gregge o meno, non si tornerà alla
“normalità” di ieri. Ad ascoltarli restando svegli, non assopiti nella tana, i
superiori parlano chiaro. L’ incubo virale rimarrà e, attraverso la dolce
signora della Commissione Ue, l’oligarchia ci offre la sua “protezione”. Non è
lo stesso atteggiamento della mafia nei confronti di coloro a cui estorce il
pizzo? La loro protezione passa per il nostro silenzio e la riduzione a conigli
impauriti. La leva è la stessa della criminalità organizzata: la paura. Potere
del panico, fobocrazia in cui domina chi diffonde, alimenta e gestisce il
timore di massa. L’apocalisse durerà a tempo indeterminato perché così hanno
deciso in alto loco: che bello- per chi sta lassù- un mondo di procioni in
maschera!Immunità di gregge rinforzata da mascherina
Chi vive nel panico non ragiona, obbedisce in
nome della pellaccia. E’ la fifa, la vecchia fifa. Il potere lo sa e spegne con
secchi d’acqua gelata il fuoco della speranza generata dai vaccini. La tecnica
non è nuova: creare paura, diffondere ansia, minacciare e poi in qualche misura
tranquillizzare. Il poliziotto buono e quello cattivo. Chi ha seminato il
veleno, possiede l’antidoto, ma esige sottomissione. Studia da quasi un secolo
le tecniche di persuasione di massa, ha elaborato strategie di dominio
raffinatissime, in fondo facili da mettere in pratica, se si possiede o
controlla l’istruzione, la cultura e si impone, come si dice dopo Lyotard, la
“narrazione”.
Le regole del
controllo sociale sono note: Noam Chomsky ne ha elencate dieci. La prima è la
strategia della distrazione – la possiamo anche definire dell’ignoranza
pianificata- e consiste nel deviare l’attenzione dai cambiamenti decisi dalle élites
economiche e tecnologiche e messi in pratica dal sottostante livello politico, inondando
il pubblico di informazioni insignificanti o addirittura false, credute per
ripetizione. Essenziale è creare problemi, per offrire poi le soluzioni, che
devono essere invocate ed introiettate con un sospiro, inevitabili e
necessarie. Ci si deve rivolgere la pubblico come a dei bambini – o a dei
procioni – per determinare una reazione infantile, facilmente controllabile e
manipolabile. Si deve usare il registro
emotivo, non invitare alla riflessione, provocare un cortocircuito di istinti che
allontani l’analisi razionale. L’uso del registro emotivo permette di aprire la
porta dell’inconscio per impiantarvi idee, desideri e paure e timori. La Fabbrica dei diritti
Occorre mantenere la gente nella mediocrità che
impedisce di comprendere, perfino di sospettare l’esistenza di tecniche e i
metodi per il controllo e la dominazione. Indurre ad essere volgari, stupidi ed
ignoranti- procioni addormentati- è un’altra delle tecniche del potere, che
rafforza la colpevolizzazione di sé. Il procione è responsabile delle sue
disgrazie: non è rimasto abbastanza fermo, non si è “distanziato”
sufficientemente, non ha seguito a dovere le istruzioni diffuse a reti
unificate. Senza azione, peraltro, non c’è rivoluzione, o almeno dissenso
organizzato. Nessun cambiamento è mai stato provocato da popolazioni chiuse tra
le mura domestiche. L’ultima regola di
Chomsky è una constatazione: il potere ci conosce assai meglio di quanto noi
stessi ci conosciamo. Questo è ancora
più vero al tempo della sorveglianza digitale, della profilazione e della
predittività dei comportamenti attraverso l’uso delle tecnologie informatiche e
dalla generalizzazione di modelli matematici sempre più sofisticati.Adolescenti in trappola
Ha una certa importanza anche l’introduzione di
concetti come la cosiddetta piramide di Maslow. Lo psicologo statunitense Abraham Maslow
teorizzò una gerarchia di bisogni o necessità posti su cinque livelli
crescenti. Il potere ha lavorato con grande successo per intrappolare la
stragrande maggioranza degli esseri umani nei due livelli di base; la
soddisfazione dei bisogni fisiologici (fame, sete e simili) e i bisogni di
salvezza, sicurezza e protezione. Viene progressivamente estirpata la parte più
nobile della natura umana, che richiede appartenenza, affetto, identificazione,
e, sempre più su, stima, prestigio, successo e autorealizzazione.
All’animale
bastano i bisogni alla base della piramide: per questo dall’alto hanno diffuso
il modello del procione. Lo stesso
Chomsky, ben prima dell’attuale crisi, osservò che “se guardiamo ciò che succede nella nostra
società da alcuni decenni, ci accorgiamo che stiamo subendo una lenta deriva
alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose che ci avrebbero fatto orrore venti,
trenta o quarant’anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e
oggi ci disturbano solo leggermente o lasciano indifferenti gran parte delle
persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle
libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura,
alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente e inesorabilmente
con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute”.
L’accelerazione
impressa da febbraio 2020, inizio dell’era virale, è impressionante. Abbiamo
ancora la capacità di accorgercene e reagire o- per restare alle metafore zoologiche-
la rana è bollita a puntino e non è più in grado di saltare fuori dalla
pentola? Dalla risposta dipende il successo della nostra riduzione a plebe
animalizzata in cattività. Da uomini a procioni.
lunedì 29 marzo 2021
IL GLOBALISMO GRACILE di Roberto Pecchioli
Il battito delle ali di una farfalla in Brasile può provocare una tromba d’aria nel Texas. Con questa frase il matematico Edward Lorenz riassunse, in una conferenza del 1979, il cosiddetto effetto farfalla, parte della più ampia teoria del caos. Molti considerano la globalizzazione una concretizzazione dell’effetto farfalla; del resto, mai come negli ultimi decenni il destino di miliardi di esseri umani è stato nelle mani di un’oligarchia – economica, industriale, finanziaria e tecnologica- interessata a instaurare un potere planetario.
David Ricardo (1772-1823) |
brillante operatore di borsa hanno bisogno, per essere realizzate, di due presupposti decisivi. Il primo è l’esistenza di un mondo irenico, privo di contrasti, retto esclusivamente da considerazioni economiche “razionali”, un’umanità sedata ridotta a partita doppia. L’altro elemento è la presenza di un potere unico sovra ordinato, una centrale “mondialista” in grado di decidere per tutti e imporre la sua volontà.
E’
quello che sta accadendo con il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale, ma nonostante
tutto e per fortuna i bachi del sistema esistono, talvolta imprevedibili. Uno
lo stiamo sperimentando con gli effetti del Covid 19, che ha trascinato al
ribasso gli scambi commerciali e imposto, se non uno stop, una ridefinizione
dell’agenda globalista. Un altro, il “cigno nero”, l’imprevisto che modifica
piani e strategie, è il blocco del canale Suez per l’incaglio di una gigantesca
nave portacontenitori da duecentomila tonnellate. Non è chiaro per quanto tempo
durerà l’indisponibilità del canale. Rimettere in linea di navigazione un
colosso del mare non è facile, un incubo logistico con centinaia di navi
bloccate o costrette a circumnavigare l’Africa, come già stanno facendo quelle
di due dei maggiori gruppi d’armamento, Maersk e Hapag Lloyd.
Suez è una delle rotte marittime più importanti del mondo: vi transita almeno il 12 per cento del commercio globale, l’8% del Gas Naturale Liquefatto e circa due milioni di barili di petrolio al giorno. Per quanto concerne le merci destinate all’Europa dalla fabbrica del mondo asiatica, il suo ruolo è assolutamente cruciale. Le stime divergono, ma ogni giorno di blocco della via d’acqua che unisce Mediterraneo e mar Rosso comporta perdite tra sei e dieci miliardi di dollari.
Dal baco della farfalla al "baco di sistema" |
La crisi
pandemica aveva abbassato i noli marittimi in calo da anni, tanto che solo i
giganti dell’armamento possono permettersi di proseguire l’attività con margini
così bassi. Anche il prezzo del greggio è diminuito, sino all’incredibile fase di
prezzo negativo per l’eccesso di prodotto stoccato e non utilizzato. Adesso,
viviamo la situazione contraria: i noli sono lievitati vertiginosamente, la
circumnavigazione dell’Africa dura settimane e comporta costi altissimi.
Secondo Bloomberg, Bibbia dell’informazione economica, spedire un contenitore
di quaranta piedi (due “teus”, nel linguaggio del settore) dalla Cina
all’Europa può costare fino a ottomila dollari, quattro, cinque volte di più
che all’inizio del fatidico 2020. L’effetto è devastante e si innesta su una
crisi del commercio marittimo già presente.
Questo comporta
un effetto inflazionistico esterno in una fase di grave perdita del potere
d’acquisto. Vi è il rischio dell’interruzione delle catene logistiche mondiali
lungo la direttrice est-ovest, con effetti disastrosi sull’industria e sugli
approvvigionamenti di materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Il
precedente che conosciamo è la guerra dello Yom Qippur del 1973 tra Israele e i
paesi arabi. Il blocco di Suez provocò la più grave
crisi petrolifera della storia. In Occidente si determinò il fenomeno della
stagflazione: economia ferma, elevata inflazione più disoccupazione diffusa.
Ovviamente
non siamo a questo punto, ma il blocco del canale, unito alla persistenza della
crisi economica da pandemia ha già prodotto un aumento del prezzo del barile di
greggio in coincidenza con il crollo del PIL dei paesi esposti al coronavirus.
Insomma, la globalizzazione disegnata dall’Organizzazione Mondiale del
Commercio (WTO) a Marrakesch (1995), completata con l’irruzione cinese (2001), è
in crisi e con essa il modello, considerato definitivo - la fine della storia -
del libero scambio e dell’abbattimento delle barriere doganali, con il seguito
di delocalizzazioni, crisi industriale e produttiva dell’ex mondo “sviluppato”.
Il globalismo non è una tigre di carta e certo è presto per pensare che avanzi la
de-globalizzazione, ma il sistema è in fibrillazione.
Fin
qui i fatti. Abbandoniamo i massimi sistemi e tentiamo di fornire una modesta
cartografia pratica della globalizzazione “reale”. Condiamo l’insalata con limoni provenienti dal
Sudamerica. Per giungere sulla nostra tavola ha viaggiato per settimane lungo
l’Oceano dentro cassoni frigoriferi. Il piroscafo che lo ha trasportato è un
gigante del mare lungo centinaia di metri, alto come un palazzone di città. Chi
non li hai mai visti resta sbalordito. Le nuove portacontenitori devono essere
in grado di trasportare tre o quattromila cassoni.
La stazza della Even Given incagliata è di duecentomila tonnellate. Per costruirla, si sarà dovuto allargare il cantiere e l’ammasso di ferraglia e motori è costato centinaia di milioni di euro. Per ammortizzare i costi, deve correre all’impazzata per il mare con soste brevissime. Brucia migliaia di litri di carburante al giorno, i cui residui vengono sversati in mare. Per consentire il ritmo del commercio
Dal "Laissez-faire" di Adam Smith ai limoni che fanno il giro del mondo prima di arrivare sulle nostre tavole |
globale, si scavano sempre nuovi pozzi di petrolio e di gas naturale. Alcuni metodi di estrazione, come quello dei gas di scisto, il fracking, ovvero la frantumazione idraulica delle rocce, hanno costi ambientali drammatici e un consumo d’acqua immenso. La nostra nave non può approdare se non in porti dei quali è stato artificialmente aumentato il pescaggio. Questo comporta l’esecuzione di continui dragaggi, con immense ricadute geologiche sulle aree costiere e la difficoltà di stoccare, utilizzare o distruggere l’enorme quantità di detriti.
All’arrivo,
la velocità di carico e scarico è essenziale: i limoni devono raggiungere in
gran fretta il mercato, mentre migliaia di altri contenitori si ammassano per
il ricarico lungo banchine sempre più grandi. Da diversi anni, i ritmi di
lavoro hanno nuovamente alzato il numero di incidenti. Migliaia di vagoni
ferroviari e soprattutto di camion percorrono le vie di comunicazione per
consegnare rapidamente le merci, il che rende necessario moltiplicare binari e
autostrade.
Dalla bellezza dei
Limoni della Costiera Amalfitana
Finalmente,
i limoni arrivano sulla nostra tavola. Ma in Italia non produciamo i limoni più
saporiti e famosi? Era davvero necessario mettere il mondo a ferro e fuoco per
consumare agrumi provenienti dagli antipodi, il cui unico merito è di costare
qualche centesimo in meno di quelli nostrani? E’ davvero la ragione economica
l’unico criterio esistenziale, oppure ha senso conservare le specificità
produttive di ogni paese, che sono anche potenti elementi di identità e cultura
materiale?
Pensiamo
al paesaggio agricolo pazientemente realizzato nei secoli, ai saperi antichi
che oggi chiameremmo multidisciplinari, alla vita concreta di ogni popolazione.
L’Africa, fino agli anni 60, era povera ma non conosceva la fame. Adesso, con
l’imposizione delle monocolture sotto il ricatto del debito di organismi come
il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, dilagano povertà ed
emigrazione, mentre pochi si arricchiscono e si disperde la sapienza antica
delle popolazioni. La miseria è la
peggiore consigliera, per cui gli stessi colossi del mare che hanno trasferito
in Occidente limoni e manufatti, esportano nei paesi poveri i rifiuti tossici della
civiltà dei consumi.All'orrore dei rifiuti trasferiti
in Africa
Le
industrie che si fregavano le mani, all’inizio degli anni Duemila, per la
possibilità di abbattere il costo del lavoro spostando le produzione, oggi sono
in crisi perché i manifattori in conto terzi di ieri, a cui avevano consegnato
macchinari e affidato know-how, hanno
imparato rapidamente la lezione e adesso producono autonomamente. Quanta miopia
nel globalismo alla Ricardo, che funziona solo in una dimensione imperiale – la
Compagnia delle Indie ieri, i giganti multinazionali di oggi- concentra la
ricchezza verso l’alto e rende impotenti nazioni intere, private delle
conoscenze e dei mezzi per tornare a un’economia a dimensione umana.
La
terapia per le varie crisi – che sono in verità momenti in cui il sistema si
libera delle sue scorie a spese dei popoli – è, invariabilmente, l’assunzione
in dosi più massicce dei veleni di cui abbiamo già sperimentato gli effetti. Il
globalismo è l’enfatizzazione dell’assenza di limiti, così come, al contrario,
un’economia legata ai veri bisogni umani, alla natura, ai suoi ritmi e alle sue
possibilità di riprodurre risorse, è educazione al limite, alla custodia
anziché al saccheggio del creato.
Un esempio sono le cosiddette “terre rare”, i minerali da cui sono ricavati
i materiali indispensabili al funzionamento delle tecnologie informatiche,
telefoniche e di telecomunicazione, senza le quali la globalizzazione si ferma.
Mentre chi estrae certi minerali in condizioni drammatiche muore in Africa e
altrove, e la Cina assume una posizione pressoché monopolistica nella
lavorazione, ogni giorno noi gettiamo via telefoni e computer inondando casa
nostra di altri rifiuti pericolosi (radiazioni, residui tossici e non solo). Produci,
consuma e crepa, letteralmente. Dobbiamo per questo tornare ai carri trainati
dai buoi, comunicare con segnali di fumo o legando messaggi alle zampine dei
colombi? Evidentemente no, ma la globalizzazione è lo stadio terminale di un
atteggiamento “proprietario” verso la natura e l’uomo stesso.
La ragione economica come movente unico dell’agire umano non solo è clamorosamente
falsa, ma ha già determinato disastri enormi, guerre, sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, indifferenza verso gli esseri viventi e la Terra, casa comune. Per
calcoli errati di politica industriale, l’Unione Sovietica – capitalismo di
Stato- ha praticamente prosciugato il lago di Aral, il secondo più grande del
mondo. Oltre al disastro ambientale, ha distrutto l’economia e la storia di una
regione grande come l’Italia settentrionale. La deforestazione selvaggia di
vaste aree degli Stati Uniti dalla seconda metà dell’Ottocento fece diventare
terre fertilissime “bad lands”, terre
cattive dalle quali era scomparso l'humus nutritivo, steppe spazzate dai cicloni e
dalle tempeste di vento che prima non le raggiungevano. Milioni di famiglie finirono
in povertà e dovettero affrontare l’emigrazione: è il racconto di John
Steinbeck nel romanzo Furore, portato sul grande schermo da John Ford.Furore, romanzo
Tutto ciò dimostra che la globalizzazione senza limiti, la cieca
imposizione dell’accrescimento
economico (di pochi) a danno di tutti gli altri, non funziona a medio e lungo
termine. I benefici economici di breve periodo non compensano i sacrifici e i
costi umani, sociali e di civiltà. Chi scrive ricorda un aneddoto della sua carriera
di funzionario doganale: una mattina ricevette una telefonata allarmata
dall’ISTAT di Roma, convinta che le statistiche economiche fossero state
falsate. Risultava infatti un’esportazione da 500 milioni di euro, quasi mille
miliardi delle vecchie lire. Nessun errore: si trattava della bolletta
riepilogativa della costruzione di una enorme nave da crociera. Gli statistici,
tuttavia, non avevano torto: gran parte di quell’enorme somma non era andata al
cantiere e ai fornitori nazionali, ma a appaltatori e subappaltori provenienti
dal mondo intero a cui era stato esternalizzato gran parte del lavoro. Chi ha
frequentato o visitato i cantieri navali e quelli delle grandi opere sa di che
cosa parliamo, con tutto ciò che consegue in termini di perdita di competenze e
specializzazioni nazionali, sicurezza e qualità.
Quanti viaggi, quanti passeggeri occorrono per ammortizzare un costo tanto
grande? Per quanto tempo le macchine devono correre al massimo e l’apparato
pubblicitario deve convincere milioni di persone a “consumare” crociere,
ammazzando nel frattempo il turismo di prossimità? La ruota gira vorticosa:
cantieri sempre più grandi, tempi e ritmi di produzione ristretti, altro
petrolio e altro gas sversato e bruciato. Il GPL, gas di petrolio liquefatto,
viaggia in gran parte attraverso tubazioni, ma il suo trasporto marittimo
obbliga alla liquefazione del prodotto a oltre centonovanta gradi sotto zero,
al trasporto in cisterne costosissime per la coibentazione e gli immensi
apparati di conservazione della temperatura. Sulla banchina d’arrivo, ci deve
essere un impianto di rigassificazione.
Maurizio Pallante introdusse la distinzione tra beni e merci. I primi sono
tutto ciò che davvero serve alla vita; alcuni sono immateriali, come la
convivialità, la comunità, la cultura, oltre naturalmente al cibo, l’acqua e
l’aria. Le seconde rappresentano ciò che può essere compravenduto. La
differenza è evidente: non a tutto può essere assegnato un prezzo, non tutto
può essere oggetto di commercio. Di qui la nozione di “beni comuni”, da
sottrarre agli appetiti privati. La globalizzazione reale si è appropriata
della salute (Big Pharma e le lotte vergognose per farmaci e vaccini) e di beni
come le risorse idriche e le reti di comunicazione. Un sistema composto di
enormi cartelli privati non solo domina il mercato, ma si sottrae facilmente al
pagamento delle imposte. La caratteristica della tassazione è la
territorialità, ma il sistema si è fatto sfuggente, extraterritoriale, virtuale
o reale secondo convenienza.
Attraverso meccanismi come quelli di trattati come il TTIP, per ora
accantonato, ma che ritorna sotto le mentite spoglie di un analogo accordo con
il Canada, il globalismo istituisce perfino tribunali privati, il cui scopo è
sterilizzare il residuo potere degli Stati, trascinati sul banco degli imputati
con durissime pene pecuniarie e gravi rappresaglie commerciali. Stalin si
chiese beffardamente di quante divisioni militari disponesse il Vaticano per
imporre i suoi punti di vista. Il globalismo ha armi di dissuasione finanziaria
ed economica potentissime, ma, alla peggio, può contare anche sulla forza delle
armi. I mondialisti sono apolidi, ma hanno una sede, gli Stati Uniti e
un’influenza superiore a quella del governo federale sugli apparati
industriali, riservati e militari.
La partita è finita, dunque, irrimediabilmente perduta? Non ancora e non
del tutto. Vedremo quali cambiamenti porterà il dopo-Covid, quale sarà il ruolo
del gigante cinese, quale impatto geopolitico e antropologico avrà il Grande Reset,
che contiene alcuni elementi incompatibili con la globalizzazione sperimentata
nell’ultimo ventennio. In più, la competizione mondiale potrebbe cambiare la
mappa delle rotte commerciali (la Via della Seta cinese, ma anche la futuribile
rotta artica se i russi riuscissero ad abbattere i costi delle navi
rompighiaccio che sperimentano). Il globalismo sta subendo gli effetti della
pandemia, ma sta anche utilizzando la paura per imporre un’agenda che, in
parte, avrà l’effetto di ricentrare e rilocalizzare la vita e l’economia.
Episodi come quello di Suez dimostrano che l’ingranaggio ha le sue falle.
Il problema è la “narrazione”. La globalizzazione fa male, rende
ricchissimi i ricchi, onnipotenti i forti e inizialmente aiuta alcuni dei più
miseri. Colpisce tutti gli altri: negli interessi concreti, nel modo di vivere
e di essere, in tutto ciò che è cultura, costumi, principi di ciascun popolo. Ci
dicono il contrario: è all’opera un immenso apparato di condizionamento e
direzione. Ma dovrebbe essere chiaro che è meglio un limone a chilometro zero
di una nave grande come un grattacielo che viaggia veloce per il mondo per
portarci i limoni degli antipodi, insieme con prodotti in buona parte inutili
destinati a una rapida, programmata, obsolescenza.
Come i criceti nella ruota
Tanto rumore per nulla, se il gigante del mare si incaglia e se un virus
cambia le abitudini di una generazione. Forse la corsa del globalismo è più
simile di quanto pensiamo alla ruota in cui spreca la vita il criceto in
gabbia. Chissà che il moloch globale
non abbia più una sana e robusta costituzione e, sia, in fin dei conti, un gracile
Golia.